Negli Stati Uniti l’avvio della lunga corsa alle primarie del Partito democratico nasce sotto il segno del caos. O meglio, di un doppio movimento caotico. Da un lato c’è il caos presidenziale, che Donald Trump persegue mantenendo il centro della scena mediatica e prolungando il più lungo shutdown della storia statunitense: da una parte la richiesta di finanziare la costruzione del muro alla frontiera con il Messico, dall’altra l’opposizione del Congresso e della maggioranza democratica alla Camera. Nel mezzo il conflitto tra Nancy Pelosi e Trump: da un lato l’idea della speaker democratica di impedire che il presidente tenga il tradizionale discorso a Camere congiunte sullo State of the Union; dall’altro la ripicca di Trump di impedire che la visita ufficiale della Pelosi in Afghanistan, Bruxelles ed Egitto possa compiersi con un mezzo militare (utilizzando lo shutdown come ragione di questo impedimento). Senza contare l’ennesimo rincorrersi di voci sul caso Russiagate: l’avvocato del presidente, Rudy Giuliani, non esclude più che vi sia stata collusione tra il governo russo e alcuni membri dello staff della campagna elettorale di Donald Trump; il colpo di scena, alla James Bond, dell’arresto della modella ed escort bielorussa che aveva dichiarato di possedere prova delle interferenze russe nella competizione del 2016, fino a oggi detenuta in Thailandia (ora in prigione a Mosca). Messe in fila tutte le informazioni, non si riesce a non credere che si tratti della sceneggiatura di un film. Il kolossal del caos presidenziale, con l’obiettivo di restare sempre al centro della scena, individuando ogni volta un nemico contro il quale scagliarsi allo scopo di scaldare i propri fan.

In questo film, però, Donald Trump gioca sempre di più la parte del cattivo: gli americani che oggi esprimono un giudizio negativo sulla sua presidenza sono, secondo Gallup, il 59%, appena un punto percentuale sotto il picco più alto, quello del 25 novembre 2018. Se il cattivo piace a pochi, sono molti quelli che assaporano l’idea di interpretare la parte dell’antagonista buono, il salvatore ‒ o la salvatrice ‒ della Patria. Ed è qui che comincia la seconda sceneggiatura, quella del film sul caos democratico.

Se da un lato vi sono quattro candidati che hanno già ufficializzato la loro volontà di partecipare alle primarie democratiche nel giro di due settimane ‒ Elizabeth Warren, Kirsten Gilibrand, Julian Castro, Tulsi Gabbard ‒, dall’altro ve ne sono più di una dozzina che potrebbero decidere di competere (oltre i due già in campo, Richard Ojeda e John Delaney, due figure minori). La prima mossa è quella di costituire un comitato esplorativo, che permetta di testare popolarità di un candidato, potenzialità nelle alleanze e capacità di raccolta fondi: la stima è che per arrivare in buone condizioni al “Super Tuesday” del marzo del 2020 servano tra i 40 e i 60 milioni, disponibili in cassa. Sono pochi quelli capaci di arrivare a tanto, specie con tutta questa concorrenza: il denaro a disposizione dei democratici non potrà essere infinito, e sarebbe il caso di tenerne un po’ anche per la battaglia contro Trump. Non tutti superano lo stadio esplorativo, ma intanto l’assenza di un candidato alle primarie invincibile e di un “political machine” mangia-soldi alla Clinton fa crescere l’appetito. Anche perché tutti credono di poter battere Donald Trump: una sorta di “ora o mai più”. E qui c’è il rischio dell’autogol democratico, il caos di un conflitto per le primarie che arrivi a indebolire il futuro candidato, oppure che danneggi candidati e candidate con buone potenzialità.

Oltre i quattro già citati, a non escludere la propria partecipazione alle primarie o a trovarsi “sotto osservazione”, vi è un esercito di politici democratici: Kamala Harris, Beto O’Rourke, Sherrod Brown, Bernie Sanders, Joe Biden, Amy Klobuchar, Cory Booker, Jay Inslee, Pete Buttigieg, Michael Bloomberg e altri ancora. Insomma, dopo essere partita con grande anticipo, la lotta potrebbe rivelarsi fratricida. Di certo, si romperanno record e barriere: nessuna primaria presidenziale aveva mai visto correre più di una donna alla volta, più di un candidato afroamericano alla volta, più di un candidato proveniente dalla sinistra del partito (e non a caso proprio da sinistra si odono tuoni e fulmini contro tutti i candidati che “odorano di Wall Street”, con toni assai duri e divisivi). Tutti questi muri dovrebbero essere abbattuti in una volta sola, trasformando la geografia del voto in modo ignoto. La verità, in sostanza, è che tanto appariva semplice la sceneggiatura del 2016 ‒ una candidata dell’establishment contro un vecchio outsider ‒ tanto complicata appare quella del 2020. E non è detto che una sceneggiatura a più e più mani produca il testo più avvincente.

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