Mentre la crisi ucraina sembra avvilupparsi su se stessa e il rischio di un’escalation militare non è affatto scongiurato, la storia degli anni Novanta e dell’allargamento della NATO torna al centro della scena e a provocare accese discussioni politiche e accademiche. La Russia – e chi ne difende le ragioni – lo presenta come la matrice fondamentale delle tensioni correnti. La transizione post-socialista in Europa centro-orientale, si argomenta, poteva essere propedeutica a una pacifica stabilizzazione di un continente in parte demilitarizzato. Secondo questa lettura, spingere l’Alleanza atlantica così in profondità ad est, addirittura fin dentro lo spazio post-sovietico, avrebbe invece rappresentato una umiliazione non necessaria, capace di alimentare le legittime paure russe per la propria sicurezza e di provocarne in ultimo la ferma reazione avvenuta sotto la guida di Putin. Chi invece difende l’allargamento della NATO lo fa sottolineando come proprio l’aggressivo atteggiamento di Mosca oggi certifichi la validità di quella scelta. L’Alleanza atlantica – asseriscono i difensori della sua espansione – ha garantito sicurezza e stabilità a un pezzo importante di Europa centrale e orientale, premessa indispensabile tanto per la sua transizione democratica quanto per il rafforzamento (e la legittimazione) delle sue nuove élite politiche. E nel farlo ha agito con lungimiranza, creando una struttura securitaria meglio capace di prevenire le rinnovate mire espansionistiche e di dominio regionale di Mosca.

Ma perché la NATO si è allargata con le forme e la tempistica seguite? Perché non sono state promosse alternative all’epoca dibattute e considerate? È vero – come ha sostenuto anche recentemente il ministro degli Esteri Lavrov durante l’incontro con il segretario di Stato Usa Antony Blinken – che la storia dei rapporti con la Russia post-sovietica è scandita dagli inganni e dalle promesse non mantenute degli USA e dei loro alleati?

Una risposta secca a queste domande non la si può in realtà offrire. Da un lato, il corpus documentario è ancora parziale e incompleto, con non pochi archivi inaccessibili e molte fonti secretate. Dall’altro – dato più importante – le variabili che informarono quella decisione furono plurime, il processo opaco e le motivazioni diverse. In grande sintesi, possiamo raggruppare queste ultime sotto tre grandi categorie: geopolitiche, politiche e ideali.

Le prime rimandano in una certa misura allo slogan del primo segretario generale della NATO, Lord Hastings Lionel Ismay, secondo il quale la funzione ultima dell’Alleanza atlantica era «to Keep the Russians out, the Americans in and the Germans down»: “tenere fuori i russi, dentro gli americani e sotto i tedeschi”. La NATO serviva sì a formalizzare l’impegno statunitense a garantire la sicurezza e a fornire la difesa, dei propri partner europei, e quindi alla politica del contenimento dell’URSS e delle sue presunte mire espansionistiche, ma nel farlo, rafforzava la tutela sotto la quale era posta una Repubblica Federale Tedesca a sovranità grandemente limitata, prevenendone revanscismi o rinnovate volontà di potenza e accettando di fatto la divisione bipolare dell’Europa. Controllo della Germania e bipolarismo europeo che, sul periodo medio-lungo, sarebbero infine stati accolti positivamente dalla stessa URSS, in quanto paradossalmente funzionali alle stesse esigenze di sicurezza di Mosca.

Queste originarie logiche geopolitiche non parvero venir meno nemmeno con la fine della guerra fredda. E furono alla base delle rassicurazioni che tedeschi e americani diedero a Gorbačëv e al suo ministro degli Esteri Ševardnadze durante gli intensi negoziati del 1990-91. Agli interlocutori sovietici, preoccupati da una Germania riunificata dentro la NATO, si ribadì che proprio l’Alleanza atlantica offriva la miglior garanzia per la sicurezza futura dell’URSS prima e della Russia poi. Cosa sarebbe stato meglio, chiese retoricamente a Gorbačëv il segretario statunitense James Baker durante un incontro del febbraio 1990, «una Germania unita al di fuori della NATO, del tutto indipendente e senza militari statunitensi o una Germania riunificata che mantiene il suo collegamento con la NATO?». Aggiungendo però che questa inclusione della Germania, e quindi anche della sua parte orientale, nello spazio atlantico sarebbe stata accompagnata dalla contestuale «garanzia che la giurisdizione della NATO o la sua presenza militare non si sarebbero estese a est dell’attuale confine» tedesco. Impegno, quest’ultimo, mai formalizzato come sappiamo anche perché incompatibile con il terzo elemento dell’assioma di Lord Ismay: la dimensione esplicitamente anti-sovietica/russa della Comunità atlantica. Nel suo magistrale American Visions of Europe, lo storico John Harper parlò di «proto-contenimento» (protocontainment) per descrivere la posizione di quei «geopolitici» del Dipartimento di Stato, tra cui il padre della strategia del containment George Kennan, che già negli anni Trenta sostennero una posizione anti-sovietica nella quale assunti strategici ereditati da consolidate tradizioni geopolitiche s’intrecciavano con un antisovietismo fortemente ideologico. Adattando la formula, possiamo parlare anche di un “post-contenimento” per definire la linea di chi nel post-guerra fredda continuò a considerare la Russia il nemico primario, vuoi per considerazioni relative all’equilibrio di potenza europeo, vuoi per incapacità di liberarsi dei pregiudizi della guerra fredda, vuoi perché, in termini di misurazione strettamente quantitativa della distribuzione del potere militare, la Russia post-sovietica rimaneva l’unico vero rivale degli USA e l’ordine europeo continuava a qualificarsi quindi come bipolare. Per «tenere fuori i russi» e contenerne una minaccia che, si affermava, era destinata prima o poi a ri-manifestarsi bisognava sfruttare la debolezza della Russia post-sovietica e spostare così rapidamente a est la linea del fronte atlantico.

Le ragioni politiche rimandavano in fondo anch’esse a una specifica lettura della storia della Comunità atlantica e delle prescrizioni che essa avrebbe offerto. Atlantica era servita non solo, e non tanto, a creare un’alleanza militare e a garantire la difesa collettiva dei suoi membri. Soprattutto nei suoi primi anni, la sua valenza era stata politica e psicologica prima che strategica e militare. Aveva rassicurato le élite filo-occidentali dei Paesi europei dell’impegno statunitense a sostenerle e proteggerle; le aveva legittimate di fronte alle proprie opinioni pubbliche rispetto alla loro capacità di essere partner e interlocutori privilegiati del protettore americano; ancorandole allo spazio securitario (ma anche economico e culturale) atlantico ne aveva aiutato il consolidamento democratico laddove questo appariva ancora fragile o facilitato il passaggio alla democrazia quando questo sarebbe avvenuto. Uno schema, questo, che soprattutto negli anni di Clinton fu esplicitamente traslato alla nuova ondata di transizioni democratiche nell’Europa centro-orientale post-socialista. L’allargamento della NATO costituì uno dei pilastri fondamentali della dottrina di Clinton e del suo primo consigliere per la Sicurezza nazionale Anthony Lake, che in un celebre discorso del 1994, e in formale antitesi ai sostenitori del “post-contenimento”, parlò del passaggio da una strategia del contenimento a una dell’“allargamento”: della democrazia; del libero mercato; di quella pace e di quella stabilità che solo le garanzie securitarie statunitensi, e quindi in Europa la NATO, potevano offrire. L’espansione a est dell’Alleanza atlantica diventava quindi strumento centrale di quei processi d’integrazione globale che l’amministrazione Clinton promuoveva e cercava di accelerare.

E questo ci porta al terzo e ultimo fattore con cui si giustificò – e si può oggi cercare di spiegare – l’allargamento a est della NATO, quello che per comodità potremmo definire “ideale”. Nella retorica integrazionista di Clinton e Lake, oggi in parte rilanciata da Biden, l’Alleanza atlantica costituiva il nocciolo di una comunità di democrazie destinata a una estensione e un rafforzamento quasi ineluttabili. Anche perché le nuove democrazie sorte sulle ceneri dei regimi socialisti a quella Alleanza chiedevano con forza di poter aderire. La spinta veniva quasi sempre da opinioni pubbliche che – come ci indicano molti sondaggi – erano a larghissima maggioranza favorevoli all’ingresso del loro Paese nella NATO. Maggioranze, queste, ancor più marcate allo scendere dell’età degli intervistati, a segnalare come fossero soprattutto le generazioni più giovani ad abbracciare la visione di un futuro d’integrazione atlantica, europea e, in prospettiva, globale. E che rendevano ancor più forte la banale domanda retorica posta a chi, in nome di superiori imperativi geopolitici, era critico verso l’espansione: quale diritto ha chi risiede ‒ sicuro e prospero ‒ a Parigi, Roma o Washington di dire a un lettone o a un polacco che debbono stare fuori dalla NATO?

A opporsi all’espansione furono però in tanti. I celebri proprietari dell’azienda di gelati ipercalorici Ben & Jerry lanciarono una divertente campagna mediatica contro l’allagamento della NATO. George Kennan tuonò con la consueta efficacia in alcuni dei suoi ultimi editoriali, presentandola come un «errore fatale», il peggiore della politica estera del dopo guerra fredda. Una scelta, sostenne Kennan, che avrebbe «infiammato le tendenze nazionalistiche, militaristiche e anti-occidentali dell’opinione pubblica russa ... avuto un effetto avverso sullo sviluppo della democrazia russa ... e riportato all’atmosfera della Guerra Fredda». Gran parte degli studiosi, storici e scienziati politici, si schierarono con varie sfumature su posizioni simili, inclusi grandi esperti della guerra fredda come John Lewis Gaddis, che di tutto potevano essere accusati meno che di pregiudiziale anti-atlantismo.

Alcune di queste analisi, e delle previsioni che formularono, appaiono oggi profetiche. E al contempo la forza delle motivazioni ideali, politiche e geopolitiche dell’allargamento non pare essere venuta meno. La politica estera non di rado aggressiva e spregiudicata della Russia putiniana può essere quindi spiegata come la reazione a una provocazione e un’umiliazione non necessarie dai critici dell’allargamento della NATO; ovvero come la dimostrazione della saggezza e accortezza di quella decisione da parte dei suoi sostenitori. E nemmeno sul fatto che alla Russia siano state fatte o meno promesse poi disattese abbiamo oggi una convergenza di vedute. Perché impegni come quelli di Baker a Gorbačëv del febbraio 1990 furono sì numerosi, ma non vennero mai formalizzati e rimasero quindi alla mercé di contesti – su tutti quello politico interno russo ‒ che cambiavano velocemente, rapide disillusioni, e opportunismi politici palesi da una parte come dall’altra. Ed ecco quindi la storia e la memoria dell’allargamento della NATO ‒ incompleto per una parte; azzardato, eccessivo e in teoria ancora reversibile per l’altra – costituire oggi uno dei tanti terreni di battaglia di questo rinnovato bipolarismo europeo.Immagine 0

Immagine di copertina: Soldati della NATO che tengono le bandiere dell’Alleanza, Rukla, Lituania (8 giugno 2015). Crediti: Rokas Tenys / Shutterstock.com

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