È di certo uno degli ambiti – assieme alle nomine di giudici conservatori alle Corti federali – nei quali l’operato dell’amministrazione Trump si è rivelato essere più incisivo e rapido. Lo smantellamento dell’apparato regolamentatore in materia di tutela dell’ambiente, che Trump ha ereditato soprattutto da Obama, è stato perseguito con coerenza e senza sosta, espressione di una filosofia de-regolamentatrice che ha trovato nella finanza e, appunto, nell’ambiente i suoi terreni privilegiati d’azione. Decine di regole sono state cancellate, le burocrazie competenti hanno avuto indicazioni esecutive su come applicare, e alleggerire, le norme ancora in vigore, l’agenzia federale per la Protezione dell’ambiente – la celebre Environmental Protection Agency (EPA), istituita con Nixon nel 1970 – è stata indebolita, ed ha visto una riduzione del suo bilancio, anche se finora meno marcata del taglio del 30% inizialmente richiesto da Trump.

Questa radicale deregulation ha preso di mira regole raggruppabili per convenienza in tre categorie principali: le emissioni nocive e l’inquinamento atmosferico più in generale; la protezione di aree e specie protette, in particolare dalle mire (e dalle azioni) dell’industria estrattiva; la tutela della salute pubblica rispetto a sostanze tossiche emesse durante il ciclo produttivo o in contesti urbani.

Come si spiega questa politica deliberata e, appunto, assai efficace? Che strumenti sono stati utilizzati per promuoverla e quali le loro conseguenze politiche?

In estrema sintesi possiamo identificare tre matrici principali dietro la radicale deregulation trumpiana in materia di difesa – o, meglio, non-difesa - dell’ambiente.

La prima è il diffuso negazionismo repubblicano rispetto al tema del cambiamento climatico e della diretta responsabilità umana nel provocarlo. Vi è qui un elemento ideologico, che connota in una certa misura l’identità dei repubblicani per come essa è andata definendosi negli ultimi 15-20 anni. Alle primarie che nel 2016 incoronarono Trump nessuno dei principali candidati – con la parziale eccezione del governatore dell’Ohio John Kasich – sostenne gli accordi sul clima di Parigi del dicembre 2015 e Trump, Ted Cruz e Marco Rubio rigettarono anche la semplice idea che la politica possa e debba intervenire per rallentare il processo di surriscaldamento globale. I fattori che alimentano questa posizione – estrema e oggi sempre più difficilmente difendibile – sono plurimi: la reazione a un fronte liberal e democratico che da Al Gore Jr. ad Alexandria Ocasio-Cortez ha abbracciato invece il tema della lotta al cambiamento climatico e, talvolta in forma molto banalizzata, lo ha messo al centro del proprio progetto politico; l’influenza di una destra religiosa che rigetta l’idea che processi globali di lungo periodo, come i cicli dei mutamenti climatici, possano avere determinanti altre da quella divina; il peso, assai tangibile, di interessi economici e di un’industria estrattiva schierata in larga parte a favore del Partito repubblicano oltre che fortemente radicata e influente in alcuni suoi solidi bastioni statali.

Questo ci porta alla seconda matrice: quella strettamente economica. Da un lato vi è il convincimento diffuso che politiche come quelle che ci si è impegnati ad adottare a Parigi nel 2015 danneggino l’economia statunitense a favore di chi – come l’ormai arci-nemico di Trump, la Cina – gode dello status di Paese in via di sviluppo e beneficia dunque di deroghe e standard differenti. Vi sono appunto precisi interessi economici – dall’industria carbonifera della West Virginia alle corporation del petrolio che mirano ai giacimenti nelle riserve naturali dell’Alaska – che premono per sacrificare la tutela dell’ambiente sull’altare di una logica “sviluppista” (e dei loro profitti) e che trovano una forte ricezione nel presidente e in molti membri di questa amministrazione.

Terzo e ultimo aspetto, quello più strettamente politico. Trump agisce per soddisfare precise constituencies politiche ed elettorali, lo si è detto. E lo fa per rovesciare uno degli ambiti d’azione, e dei lasciti, più importanti degli anni di Obama. Per marcare, e sfruttare, cioè una delle differenze più profonde tra le due ultime esperienze di governo negli USA.

Lo fa, e lo può fare, anche perché quel lascito fu tracciato in larga misura nella sabbia: perché al momento dell’elezione di Trump nel novembre 2016 esso aveva conosciuto solo una minima codificazione legislativa, vittima dell’ostruzionismo repubblicano, della sclerosi congressuale, ma anche della irresistibile tentazione imperiale del moderno presidenzialismo statunitense, della possibilità cioè di aggirare l’iter congressuale, utilizzando quello esecutivo ‒ attraverso decreti presidenziali (gli “executive orders”) – e, soprattutto, burocratico, con gli strumenti delle indicazioni alle agenzie competenti su come interpretare e applicare un determinato corpo di leggi. Trump ha in una certa misura preso esempio da Obama. Ha governato e sta governando l’ambiente per via esecutivo-amministrativa. Questo suo primo mandato sta costituendo un altro passaggio nel consolidamento di quello che lo scienziato politico Andy Rudalevidge ha definito la «presidenza amministrativa».

Se Trump ha usato, con finalità contrarie, l’eredità di Obama, è altresì vero che in questi due anni e mezzo ha dovuto fronteggiare problemi e ostacoli non dissimili da quelli con cui si dovette confrontare il suo predecessore. È questa la prima conseguenza politica che deve essere menzionata qui. L’azione federale ha generato una forte reazione a livello locale, statale e municipale, dove sono state adottate o rafforzate politiche contrarie – e addirittura di esplicita resistenza ‒ a quelle nazionali. Gli esempi qui davvero si sprecano, dall’impegno della California e di altri Stati a giungere in un futuro non troppo distante a un modello di emissioni zero alla nascita di coalizioni di governatori e di città impegnati a mantenere fede agli impegni di Parigi ai numerosissimi referendum su temi ambientali contestuali al voto di midterm del 2018 (e a quelli che presumibilmente vi saranno tra poco più di un anno). Raramente si è visto un simile attivismo dal basso e l’insuccesso ultimo della candidatura presidenziale del governatore democratico dello Stato di Washington, Jay Inslee, che tutto aveva puntato sui risultati del suo governo e sul suo inattaccabile pedigree in materia di ambiente, ci dice che il tema è talmente egemone e incontestato tra i democratici che ormai nessuno lo contesta o può venirne qualificato, in senso positivo o negativo.

Tra i democratici, ma anche tra gli indipendenti e gli incerti. È questo il secondo e ultimo dato politico da menzionare. Il ritorno politico ed elettorale per Trump sembra essere oggi limitato, anche perché il basso costo dell’energia – una delle giustificazioni primarie dietro queste scelte anti-ambientali – ha prodotto una diminuzione della sensibilità dell’elettorato e secondo Gallup oggi solo il 25% degli americani esprime preoccupazione per la scarsità delle risorse energetiche o i loro prezzi, la percentuale più bassa da quando, nel 2002, sono iniziate queste rilevazioni. Nel mentre, percentuali crescenti – il 66% degli americani secondo gli ultimi sondaggi di cui disponiamo ‒ esprimono invece il convincimento che il cambiamento climatico sia reale e provocato dall’azione dell’uomo, e chiedono quindi vengano adottate politiche per farvi fronte. Percentuali che variano ovviamente a seconda dello schieramento politico, ma anche dell’anagrafe: con una sensibilità maggiore, netta e indiscussa, tra quei giovani che nell’ultimo decennio si sono spostati sempre più a sinistra. E anche a destra, gruppi di giovani repubblicani paiono ora finalmente attivarsi per mutare un corso d’azione che già nel breve periodo rischia di danneggiare pesantemente alle urne il presidente e il suo partito.

Immagine: Donald Trump durante una manifestazione alla Mohegan Sun Arena di Wilkes-Barre, Pennsylvania, Stati Uniti (10 ottobre 2016). Crediti: Matt Smith Photographer / Shutterstock.com

Argomenti

#inquinamento#regole#Obama#Trump#ambiente