L’intesa sul nucleare iraniano tra Washington e Teheran diventerà operativa il 20 gennaio. L'accordo, faticosamente raggiunto lo scorso novembre a Ginevra, è però in balia degli umori di Israele che guarda all’intesa tra Barack Obama e Hassan Rouhani con manifesta irritazione.

La pubblicazione del libro di memorie dell’ex segretario alla difesa americano Robert Gates “Duty, Memories of a Secretary at War” è attesa per martedì 14 gennaio, ma le prime anticipazioni stanno già circolando. Uno degli aspetti di maggiore interesse affrontati da Gates - nominato al Pentagono da George W. Bush e confermato da Obama - è proprio il triangolo di tensioni diplomatiche che vede protagonisti Stati Uniti, Iran e Israele.

Stando alle anticipazioni riportate dall’analista d’intelligence Eli Lake, Gates descrive Israele come “un partner ingrato” verso gli Usa e incapace di calibrare le alleanze tattiche alla luce dei suoi reali interessi strategici. Nello specifico, Gates si riferisce al rifiuto di Benjamin Netanyahu e Ehud Barak (ex ministro della difesa israeliano) di accettare la necessità di un’alleanza con l’Arabia Saudita. Mossa suggerita da Washington per fronteggiare il nemico comune: l’Iran e il suo ambiguo programma nucleare. Israele, secondo la ricostruzione di Gates, sarebbe vittima oggi di un isolamento auto-inflitto per via di alcune scelte controproducenti come l’assassinio, ad opera del Mossad, del terrorista palestinese Mahmud al Mabhuh in un albergo di Dubai nel gennaio 2010. Un omicidio mirato, eseguito con modalità un po’ troppo disinvolte: 11 operativi del Mossad arrivarono a Dubai da diversi paesi con passaporti falsi, alcuni di loro furono immortalati anche dalle telecamere del lussuoso Al Bustan Rotana Hotel, causando non pochi imbarazzi a Tel Aviv. Da un lato, Israele si vide costretto a subire i richiami dei governi europei tenuti all’oscuro dell’operazione e dall’altro a vedere interrotta ogni forma di cooperazione in materia di sicurezza con le monarchie del Golfo. Altra scelta di dubbia efficacia fu quella che portò all’incidente della Navi Marmara, quando nove attivisti che tentavano di forzare il blocco navale a Gaza furono uccisi dalle forze speciali israeliane, compromettendo così i rapporti con la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan.

Sorprende il giudizio duro di Gates che di Israele è da sempre alleato e amico. Pur non scontando nulla all’amministrazione attuale, da cui si dimise non condividendo le scelte in tema di ritiro dai teatri di guerra (del vice-presidente Biden ha scritto “negli ultimi quarant’anni non ha azzeccato una posizione giusta in materia di politica estera e di difesa”), Gates definisce Obama – pur ammettendo un’esasperazione voluta del concetto – uno dei presidenti “che ha fatto di più per la strategia di difesa strategica di Israele”. Un giudizio spiazzante, per tutti i repubblicani che da destra attaccano Obama per l’apertura al nuovo presidente iraniano Hassan Rouhani e chiedono una ripresa dei round di sanzioni economiche contro Teheran. Una doccia gelata per Netanyahu, che per Obama nutre un’antipatia genuinamente ricambiata da diversi anni, e per quanti dalle parti di Tel Aviv vivono con malcelata preoccupazione lo “sganciamento strategico” di Washington dalla storica alleanza con lo Stato ebraico. Una postura teorizzata da due accademici americani: John Mearsheimer e Stephen Walt e oggi in via di realizzazione da parte di Obama, con l’amministrazione impegnata in ogni teatro di crisi mediorientale a favorire la soluzione di problemi regionali in fori locali.

Al di là delle rivelazioni di Gates, nelle acque torbide del programma nucleare iraniano – l’attività di arricchimento dell’uranio che secondo il regime di Teheran avrebbe scopi puramente civili e che secondo molti osservatori israeliani e internazionali sarebbe il preludio allo sviluppo di una “Bomba degli Ayatollah” – qualcosa si muove anche in questo inizio 2014.

Matthew Kroenig, esperto americano di proliferazione nucleare, torna (a distanza di due anni dal primo articolo) ad analizzare le opzioni sul tavolo per gli Stati Uniti in un articolo su Foreign Affairs che sarà sicuramente letto con attenzione dalle parti di Foggy Bottom. Kroenig sostiene che in due anni molte cose siano sicuramente cambiate, tranne una: la diplomazia continua a fallire nel tentativo di prevenire l’Iran dal perseguire il suo programma nucleare. Oggi gli Usa sono di fronte a un dilemma atroce, permettere all’Iran di continuare l’arricchimento dell’uranio oppure bombardare con l’aviazione le centrali nucleari disseminate strategicamente in varie zone del paese. Due alternative che lo stesso Kroenig giudica pericolose, ma esiste una terza via: una campagna di strike mirati in grado di riportare l’avanzamento del programma nucleare indietro di qualche anno.

I tentativi di Obama di guidare i negoziati nucleari, aiutato dalla “fascinosa offensiva” del nuovo presidente iraniano Rouhani, somigliano per Kroenig ad una pericolosa danza sull’orlo del baratro. I tempi dilatati dei negoziati diplomatici rischiano di dare tempo all’Iran per continuare segretamente l’attività nelle centrali nucleari, raggiungendo così quella che Ehud Barak definì la “zona di immunità”: uno stadio del programma nucleare talmente avanzato che fornisca a Teheran uno scudo efficace da qualsiasi tipo di iniziativa, anche di tipo militare.

Per Kroenig tutte le alternative che escludono a priori l’uso della forza non tengono conto della realtà del sistema internazionale. “Se alcune persone ritengono l’uso della forza legittimo per ragioni umanitarie, non si capisce perché prevenire la proliferazione nucleare in Medio Oriente debba essere essere considerato un obiettivo non umanitario”. Una volta deciso per l’uso della forza le uniche domande da porsi sono se vi siano chance di successo o se esistano alternative migliori. Secondo Kroenig l’attacco può arretrare lo stadio di arricchimento dell’uranio con degli ovvi rischi. Rischi che reputa inferiori rispetto alla stasi.

Nel marzo 2012 Obama dichiarò che l’Iran nucleare “non è un cambiamento che può essere contenuto” e che gli USA “devono essere pronti a tutto per prevenirlo”. Difficile pensare però che queste dichiarazioni rendano vicina oggi un’operazione militare. L’indecisione e la vaghezza sembrano essere tratti caratteristici di tutta l’agenda internazionale degli anni di Obama alla Casa Bianca, si pensi alla “linea rossa da non oltrepassare” in Siria o alle controverse vicende legate al ritiro dall’Afghanistan.

Dal punto di vista israeliano, il nuovo anno si apre all’insegna delle divisioni che separano, da tempo, la comunità dell’intelligence dai leader politici. Il governo è ancora raccolto attorno alla visione e alla leadership a tratti messianica di Benjamin Netanyahu, strenuo sostenitore della non razionalità del regime di Teheran e della necessità di prevenire l’impensabile: un olocausto nucleare in Medio Oriente. L’intelligence militare sembra schierata su posizioni più prudenti, come lo furono a suo tempo quelle di un super falco come il leggendario capo del Mossad Meir Dagan, raccontate da David Remnick in un lungo articolo sul The New Yorker nel 2012. La spaccatura tra generali e ministri non riguarda infatti solo le conseguenze operative di una manovra complessa. Per molti osservatori, uno strike dell’aviazione non sarebbe realizzabile sia per ragioni logistiche sia di capacità militari. Secondo il direttore dell’intelligence miltare Aviv Kochavi c’è oggi anche una novità politica: Rouhani sarebbe espressione di un centro di potere che in prospettiva futura potrebbe marcare sempre più  le distanze dalla guida suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei.

Il primo ministro Netanyahu, il ministro della difesa Moshe Ya’alon (che pure sul tema dello strike esprime prudenza maggiore, riflesso delle perplessità dei generali dell’aviazione) e il ministro degli esteri Avigdor Lieberman ritengono invece Rouhani “un lupo travestito da agnellino”, niente più che un’astuta marionetta i cui fili sono mossi dall’ala conservatrice del clero sciita di Teheran.

L’Iran continua a sostenere che il programma nucleare avrebbe scopi nient’altro che civili, come la produzione di isotopi per le terapie mediche. Siegfried Hecker, ex direttore del Los Alamos National Laboratory e l’ex segretario alla difesa Usa William Perry colgono le contraddizioni tra la supposta volontà pacifica del programma nucleare e la realtà più scomoda di un’attività tutt’altro che destinata alle terapie mediche come quella perseguita nelle centrali di Fordow e Busheir, in un articolo sul New York Times del 10 gennaio scorso.

Secondo Hecker e Perry, a sessant’anni dall’annuncio del programma Atoms for Peace da parte del presidente Ike Eisenower almeno una cosa è chiara: “i programmi nucleari civili sono caratterizzati da trasparenza e cooperazione, opacità e segretezza sono invece sintomo di riarmo nucleare”. Se l’Iran non cambierà approccio, anche l’offensiva brillante e “fascinosa” di Rouhani apparirà molto presto per quello che è: una trappola per allocchi.

Pubblicato in collaborazione con Altitude, magazine di Meridiani Relazioni internazionali