Dicono che spesso, la sera, Yang Guang si sieda con la schiena contro il vetro che dà sul cielo grigio di Edimburgo, masticando lentamente con lo sguardo perso verso l’interno della propria gabbia, come se stesse ripensando alla patria lontana. Ma la sua nostalgia di casa potrebbe stare per giungere al termine: lunedì 4 gennaio le autorità scozzesi hanno annunciato che il suo ritorno in Cina, insieme alla compagna Tian Tian, potrebbe essere ormai imminente. E inaspettatamente anticipato.

Yang Guang e Tian Tian sono gli unici panda giganti del Regno Unito. Durante i tre mesi di confinamento per Covid, undici milioni di persone hanno guardato Yang Guang sbocconcellare senza sosta le costose scorte di bambù, ripreso in diretta dalla webcam dello zoo di Edimburgo. Ma evidentemente non abbastanza, tra questi, hanno raccolto l’appello a partecipare alla raccolta fondi per sostenere la presenza della coppia nella capitale scozzese. Tra il calo di visitatori a causa della pandemia e l’impossibilità di accedere a finanziamenti europei per via della Brexit, il loro mantenimento risulta essere troppo oneroso. E con una mossa fino a poco fa del tutto inconcepibile, potrebbero essere restituiti alla Cina, da cui erano arrivati in prestito nell’ambito di quella che in gergo viene chiamata “diplomazia dei panda”. Ma oltre agli elevati costi, potrebbe esserci dietro anche altro, al punto di iniziare a mettere in dubbio questo programma decennale?

Il panda gigante è utilizzato da secoli dalla Cina come strumento politico. Dal dono di una coppia di panda all’imperatore giapponese nel VII secolo, che contribuì ad aprire le porte del Sol Levante alla cultura cinese, fino a quelli regalati da Chiang Kai-shek agli Stati Uniti nel 1941, per il supporto durante il secondo conflitto mondiale. Ma è a partire dalla guerra fredda che la diplomazia dei panda raggiunge il proprio apice. Inizialmente come segno di vicinanza agli alleati, come i due panda donati nel 1957 all’Unione Sovietica, che per prima aveva stabilito relazioni diplomatiche con la Repubblica Popolare. O i numerosi inviati alla Corea del Nord. Poi il grande timoniere Mao comprende come gli adorabili Ursidi possano essere ancora più utili come pegno di amicizia verso chi ancora amico non è. Al termine dello storico viaggio in Cina nel 1972, Richard Nixon torna in patria insieme ai panda Ling Ling e Hsing Hsing. Immediatamente il presidente francese Georges Pompidou si mette al telefono e ricorda al leader cinese che quasi 10 anni prima, quando lui era primo ministro, era stata la Francia il primo Paese occidentale a stabilire relazioni diplomatiche con Pechino. Dopo lunghe insistenze, anche Parigi riceve due esemplari. Cui seguono quelli destinati a Messico, Spagna, Germania e Giappone.

Negli anni Ottanta arriva una nuova svolta: non si sa se più influenzata dal drammatico calo nel numero di panda esistenti o dalla filosofia di Deng Xiaoping secondo cui «arricchirsi sia glorioso». I panda non possono più essere donati, ma affittati: a carissimo prezzo e con regole via via sempre più rigide, con un’enfasi sempre più marcata sulla loro riproduzione in cattività.

Così, ancora oggi soltanto i prescelti dalla diplomazia cinese possono ricevere un panda, ma all’onore si aggiungono anche gli oneri: 1 milione di dollari all’anno per ciascun individuo, cui si aggiunge un team di scienziati cinesi che li accompagna e ulteriori 400.000 dollari nel fortunato caso della nascita di un cucciolo, che dopo lo svezzamento dovrà a sua volta essere spedito definitivamente in Cina. Dopo aver rivolto inizialmente lo sguardo verso le Americhe e l’Asia (con l’emblematico rifiuto di una coppia da parte di Taiwan nel 2005), negli ultimi 10 anni il governo cinese ha utilizzato questa leva diplomatica in particolare con le controparti europee. Spesso collegando l’arrivo dei panda alla firma di trattati commerciali o per forniture di materie prime strategiche, come l’uranio proveniente dalla Francia.

In quest’ottica è emblematico il caso scozzese: la destinazione originale di Yang Guang e Tian Tian era con ogni probabilità la Norvegia, che da molti anni era il principale fornitore di salmone e prodotti ittici destinati al mercato cinese. Nonostante le pressioni di Pechino, però, nell’autunno del 2010 il dissidente cinese Liu Xiaobo viene insignito a Oslo del premio Nobel per la Pace. Non potrà ritirarlo personalmente perché in detenzione, dove morirà 7 anni più tardi. La reazione della Cina alla scelta norvegese è molto dura e a farne le spese è anche l’accordo commerciale sulle forniture ittiche. Pechino individua però subito un nuovo partner sull’altro lato del Mare del Nord: è la Scozia, con la quale firma un trattato commerciale, che porta con sé anche Tian Tian e Yang Guang. Oltre ai trattati commerciali, valuta preziosa per ottenere da Pechino gli amati animali è proprio la vicinanza diplomatica. L’ultimo caso in questo senso è quello della Danimarca, che nel 2019 ha inaugurato una struttura, a loro dedicata, costata quasi 20 milioni di euro. Il fatto che pochi mesi più tardi uno dei panda sia riuscito a scappare dal recinto ideato dall’archistar Bjarke Ingels non è però considerato il principale problema dell’operazione. Le critiche maggiori, da parte dell’opinione pubblica, sono legate al fatto che le due mascotte bicolori avrebbero già limitato in più occasioni le critiche del governo danese verso la Cina. E la stessa offerta dei panda da parte di Pechino coincise in origine con un voto del Parlamento danese per il riconoscimento della sovranità cinese sul Tibet. Oltre a Scozia, Francia e Danimarca, coppie di panda sono state affidate a molti altri Paesi europei: Germania, Spagna, Olanda, Belgio, Austria, Finlandia. Il che conduce a una domanda inevitabile: perché non all’Italia?

Nell’alternarsi dei governi, la politica estera italiana non si è mai distinta per posizioni particolarmente anticinesi. Anzi, anche recentemente sono state dure le critiche occidentali verso la scelta di Roma di aderire alla Belt and Road Initiative (BRI) cinese. Eppure, nessun panda è mai giunto in Italia all’epoca delle donazioni liberali e nei decenni successivi non sono mai stati stretti accordi che ne prevedessero il prestito. Al punto che sorge il sospetto che, nell’ottica di Pechino, semplicemente il Belpaese non venga considerato un potenziale partner strategico primario. Oppure, al contrario, che non siano necessari questi incentivi straordinari per assicurarsi la nostra amicizia. L’unica panda che continua a circolare in Italia è, dunque, quella su quattroruote. Che a sua volta parrebbe non avere neppure a che fare con l’animale: il nome sarebbe stato scelto in riferimento alla dea romana Panda (che teneva libere le strade consolari), ma nonostante questo la FIAT fu costretta negli anni Ottanta a una corposa donazione al WWF, per evitare controversie.

Tornando infine al caso scozzese di Yang Guang e Tian Tian, è importante sottolineare come Edimburgo non sarebbe la prima città a restituire i propri panda. Ad aprire la strada è stata infatti Calgary, in Canada, che a gennaio del 2020 ha rimandato a casa i propri esemplari con 3 anni di anticipo. Tra difficoltà logistiche e mutamenti climatici, rifornire ogni giorno i panda degli 80 kg di bambù di cui necessitavano era diventato sempre più difficile. Fino alla decisione di annullare l’accordo. Esempio che potrebbe presto essere seguito dalla Scozia. Probabilmente anche sulla spinta di proteste per il trattamento cui sono sottoposti gli animali per cercare di forzarne la riproduzione.

Se la scelta dei due governi occidentali dovesse fare scuola, l’intera costruzione della diplomazia dei panda potrebbe venire messa in discussione. Aprendo la possibilità di una discussione più ampia sull’intero modello applicato per la tutela dei panda, il cui intero areale di distribuzione si trova all’interno dei confini cinesi.

Da anni le associazioni ambientaliste sostengono che più che spendere cifre sempre maggiori per tenerli in gabbia e tentarne la riproduzione in cattività, andrebbe protetto l’habitat dove mantenerli in libertà. Dedicando risorse e impegno a sconfiggere la caccia di frodo, la deforestazione e le altre cause del loro declino, direttamente collegate agli interessi economici e di sviluppo del governo cinese. La casa a cui Tian Tian e Yang Guang torneranno, infatti, non saranno le foreste di bambù dei monti Tsin Ling, ma quasi certamente la cosiddetta Base Panda, incuneata tra due grandi arterie stradali alla periferia di Chengdu: una megalopoli di oltre 18 milioni di abitanti nel cuore del Sichuan, che occupa quella che era la regione ancestrale dei panda. Attorno a quest’area, si stima resista ancora in libertà l’80% dei circa 1.500 panda ancora esistenti. Per quanto ancora, dipenderà anche dalle scelte dei governi stranieri, che fino ad oggi hanno sempre assecondato e talvolta alimentato questo spregiudicato utilizzo politico dei panda da parte della Cina.

Immagine: Il panda gigante nello zoo di Edimburgo, Scozia, Regno Unito. Crediti: Standa Riha / Shutterstock.com

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