Quando si parla di islam in Cina (RPC) il riferimento immediato è agli Uiguri, una popolazione di ceppo turcofono risiedente nel Nord-Ovest del Paese, in particolare nella regione autonoma del Xinjiang �� istituita dal governo comunista insieme a quelle del Guangxi, della Mongolia Interna, del Ningxia, e del Tibet, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, nel tentativo di trovare una soluzione alle complesse e problematiche relazioni tra l’etnia maggioritaria Han e le principali tra le cinquantacinque minoranze etniche (shaoshu minzu) presenti nel territorio – e agli attentati terroristici di cui essi si sono resi responsabili negli ultimi lustri (colpendo non soltanto espressioni del potere centrale Han ma anche la popolazione civile) e in virtù dei quali sono stati inseriti nella famosa lista nera statunitense dei gruppi terroristici internazionali con l’acronimo ETIM (East Turkestan Islamic Movement); come pure alla campagna di repressione sistematica cui è sottoposta la regione, e di cui i media stranieri riportano gli aspetti più sensazionali, confermati spesso da rapporti di organizzazioni non governative che si occupano della difesa dei diritti umani e delle stesse Nazioni Unite.

Quella del Xinjiang è una regione di rilevanza cruciale per il governo cinese, sia dal punto di vista strategico, per la sua posizione geografica, incastonata tra Cina, Russia, Mongolia e Repubbliche centro-asiatiche, che ne hanno sempre fatto la porta della Cina verso l’Occidente, sia dal punto di vista economico, per la ricchezza di giacimenti di minerali e idrocarburi. Oggigiorno rappresenta una componente chiave del progetto della Nuova Via della Seta, la cosiddetta Belt and Road Initiative (BRI) e, in quanto tale, è parte integrante del sogno cinese (Zhongguo meng) di rinnovamento nazionale del presidente Xi Jinping. Ciò detto, la minoranza turcofona e indipendentista degli Uiguri che la abita rappresenta una minaccia costante, un fattore di destabilizzazione e dunque un problema per la sicurezza nazionale del Paese, le cui radici sono profondamente radicate nella storia cinese del Novecento. Per ben due volte (negli anni Trenta e di nuovo negli anni Quaranta), infatti, la regione, conosciuta anche come Turkestan Orientale, ha proclamato la propria indipendenza rispetto al governo centrale, sfruttando la situazione di divisione e instabilità che contrassegnava il Paese all’indomani del crollo dell’impero plurimillenario (1911) e la nascita della Repubblica di Cina (1912), con la parentesi dei signori della guerra e la guerra civile tra comunisti e nazionalisti, conclusasi soltanto nel 1949, con la vittoria dei primi e la proclamazione della RPC. La Costituzione della regione autonoma – che avrebbe dovuto garantire una certa autonomia nella gestione degli affari locali – non è servita a placare le pulsioni indipendentiste della popolazione, complice il processo di sinizzazione imposto dal governo centrale fin dal principio (con trasferimenti più o meno volontari di quote crescenti di cinesi Han nel territorio) e più in generale la politica repressiva e discriminatoria portata avanti dalla componente Han contro la cultura, la lingua e le usanze religiose locali, oltre al sostegno internazionale alla loro causa, soprattutto negli Stati Uniti d’America, dove risiedono alcuni politici ed esponenti della comunità affaristica uigura attivi nella difesa dei diritti umani e della comunità in generale. La recrudescenza del conflitto ha avuto picchi di violenza nell’ultimo decennio, spesso sfociata in attentati terroristici (alcuni plateali come quello condotto in piazza Tian’anmen nell’ottobre del 2013 e quello messo in atto nella stazione ferroviaria di Kunming nel marzo del 2014) e frequenti scontri di piazza.

Ma l’islam in Cina non è solo quello fondamentalista e radicale degli Uiguri, che pur rappresentano la maggioranza degli abitanti di religione islamica presenti nell’intero Paese (circa 13 su 20 milioni). Esiste, infatti, un’altra minoranza, gli Hui, che a differenza dei primi è costituita da cinesi Han convertiti all’islam, concentrata per lo più all’interno di un’altra regione autonoma, quella del Ningxia, la quale non ha mai rappresentato oggetto di allarme per il governo centrale. A questo punto può essere utile sottolineare come l’islam vanti una significativa presenza nel territorio cinese già a partire dall’VIII secolo a.C., quando mercanti arabi e persiani iniziarono a frequentare e a stanziarsi lungo le coste cinesi, e conobbe una crescita rilevante nei successivi secoli XIII e XIV, in concomitanza con il ricorso, da parte della dinastia mongola degli Yuan, a burocrati, soldati e uomini d’affari islamici, in luogo di cinesi Han. Ciò detto, la regione autonoma del Ningxia è stata a lungo presentata dal governo centrale come un modello di “unità etnica”, una storia di successo della convivenza pacifica tra minoranza Hui e maggioranza Han; a loro volta gli Hui sono sempre stati lasciati liberi di praticare la loro fede, almeno finora.

Con l’arrivo di Xi Jinping al potere, e la stretta autoritaria di cui si è reso protagonista, questa situazione è iniziata infatti a venire meno. All’indomani della pubblicazione del Libro bianco sulle religioni, intitolato Politica cinese riguardo alla pratica e alla salvaguardia della libertà di religione (Zhongguo baozhang zongjiao xinyang baipishu de zhengce he shixian), lo scorso mese di aprile, preceduto dalla chiusura dell’ufficio dell’Amministrazione statale per gli affari religiosi, con il trasferimento delle competenze al partito e al presidente in prima persona, ma che si inserisce nel più vasto processo di cinesizzazione della religione (zongjiao zhongguohua), avviato da Xi Jinping fin dal 2015, con il proposito di allineare le cinque religioni ufficiali riconosciute dallo Stato – taoismo, buddismo, islam, cristianesimo protestante e cattolicesimo – alla cultura cinese e alla autorità assoluta del partito, le cose hanno iniziato a cambiare anche per gli Hui, i quali hanno preso a manifestare pubblicamente il loro disagio, scendendo in piazza per protestare contro la volontà del governo di Pechino di imporre le proprie regole sull’islam – dal divieto delle chiamate alla preghiera (per motivi di inquinamento acustico), all’eliminazione delle copie del Corano dagli scaffali dei negozi di souvenir, dalla proibizione, per i dipendenti pubblici, di indossare il tradizionale copricapo sul posto di lavoro, ai piani di trasformazione delle moschee esistenti per renderle più simili a templi cinesi. Pur riconoscendo che la Cina costituisce un Paese multi-religioso fin dai tempi antichi, il Libro bianco ribadisce, infatti, che Pechino mantiene il principio secondo il quale «le religioni devono essere cinesi nell’orientamento» e che ad esse si provvede «una guida attiva», affinché «possano adattarsi alla società socialista». Trattasi di uno slogan che il presidente cinese ha ribadito sia in occasione del XIX Congresso del Partito comunista cinese che della riunione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo, nel marzo scorso, ma che costituisce parte integrante dei nuovi Regolamenti sulle attività religiose, entrati in vigore il 1° febbraio 2018, che fanno di tale “guida attiva” lo strumento per il controllo totale dei credenti, di ogni fede, in ogni ambito e a tutti i livelli dell’organigramma statale.

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