L’Istria è un po’ come il Salento, terra di dove finisce la terra. Come nel nostro Sud non ti puoi liberare dall’ospitalità di chi conosci, puoi arrivare a cinque pasti nel giorno di visite, con la grappa spillata in casa brandita già da mezzogiorno. In estate è invasa da turisti di tutto il Centro-Europa che si stabiliscono anche in campagna, nel suo centro, per poi girare alla ricerca delle tante spiagge cristalline e delle loro città dal sapore italiano.
Le similitudini finiscono qui. Scarsamente abitata, 350.000 la stima degli esuli italiani che l’hanno abbandonata dopo la Seconda guerra mondiale, all’epoca delle vendette sommarie. La consueta sonnecchiosa domenica di luglio è risvegliata nel meriggio dalle prime auto con due bandierine croate ai lati, gli scacchi biancorossi sul cofano o sul supporto degli specchietti: è di nuovo tempo di storia, e questa volta i volti sono sorridenti, già soddisfatti e forse rassegnati alla sconfitta.
Sono a Nedešćina, a pochi passi dalla bella città Labin-Albona (il doppio toponimo riuscirebbe a far smarrire anche l’automobilista più esperto); prossimo a Raša-Arsia, teatro della più grande tragedia mineraria italiana (quasi duecento minatori asfissiati nel 1940) e ora piccola città-museo nel percorso ‘architettura dei regimi totalitari’; vicino alla foiba di Vines, ottanta italiani scagliati in una fossa sperduta nella campagna, ora circondata da un cavo di metallo. Poco prima della partita i bambini fanno la ruota sulla strada provinciale; tutto è fermo come neanche per il Shabbat in Israele. Si potrebbe vivere la finale mondiale nel caffè Veteran, da cui proviene il coro di un Ligabue croato a tutto volume ed ettolitri di birra si sono già levati al cielo. La presenza di mia figlia di tre anni ci induce a riparare nell’altro locale aperto nell’arco di chilometri, l’elegante ristorante Placa, eroicamente tenuto aperto dal proprietario ex calciatore e dal cameriere stangone, portiere della squadra locale.
Chi ha voluto raccontare la finale mondiale come sfida tra multiculturalismo e nazionalismo ha peccato almeno di semplificazione. In Istria puoi parlare italiano con chiunque, più si alza l’età dell’interlocutore e più si può sentire l’inflessione dialettale dell’istro-veneto, e sembra quasi di essere a Verona; e d’altra parte anche il capoluogo Pola ha la sua Arena con il concerto di Zucchero in programma. Ma anche i tedeschi si sentono a casa e non devono fare sforzi linguistici. L’Istria è stata austriaca, italiana e slava, ma forse non è appartenuta davvero a nessuno.
La partita comincia e la Croazia è immeritatamente sotto di un gol; i tedeschi nel locale continuano a sbranare risotto mit scampi alle cinque e mezza del pomeriggio, il proprietario esibisce un sorriso simpatico come la sua cravatta con la bandiera croata, fa il distaccato servendo ai tavoli ma esulta come Fabio Grosso al gol del pareggio di Perišić. Al tavolo più vicino al televisore si riconoscono due suoi amici sui sessanta, che fumano una sigaretta dietro l’altra; uno di loro assomiglia in modo strabiliante al personaggio di Petar, protagonista di Underground di Kusturica.
Nell’intervallo decido di non poter più corrompere mia figlia con patatine e gelati per farla stare seduta e la porto al parco giochi. Un gruppo di bambini ha improvvisato una partita nel campo di calcetto, davvero non riesco a capire come possano riconoscersi tra compagni di squadra e avversari, sono tutti vestiti con la maglia biancorossa a scacchi. L’unica ipotesi è che sia una sfida tra chi ha la maglia di Modrić e chi di altri talenti nazionali, la percentuale è 50-50. L’allenatore della Sampdoria Giampaolo sostiene che l’Italia abbia cominciato a perdere peso nel calcio globalizzato da quando non si gioca più per strada per ore, con i rimpalli che affinano la tecnica e l’assenza di riconoscibilità dei compagni che velocizza il pensiero visuo-spaziale.
Quello stesso pensiero esibito alla grande da un elegante avventore del ristorante al rientro, capace di tagliare la pizza e portarsela alla bocca senza staccare gli occhi dal televisore; ma non dall’eroe di Croazia-Danimarca Subašić che ha deciso di non prenderne neanche una. Petar va via furibondo, ma forse ha solo finito le sigarette.
Vado via anch’io al fischio finale, non voglio vedere i francesi alzare la coppa. Ho solo il tempo di vedere un ragazzo con la maglia di Griezmann che si allaccia a suoi coetanei istriani, davanti alla stele che ricorda i nomi dei tanti abitanti di Nedešćina trucidati dai nazisti. Per strada ci si può alzare le spalle e sorridere delusi: dopo tutto è tempo di pace.