«Il 24 febbraio 2022 segna l’inizio di una nuova era nella storia del nostro continente. Con l’attacco all’Ucraina il presidente russo Putin ha provocato, a sangue freddo, una guerra di aggressione, con un’unica ragione: la libertà degli uomini e delle donne in Ucraina mette in discussione il suo regime di oppressione […] È l’inizio di una nuova era. E questo significa che il mondo di domani non sarà più lo stesso di quello di ieri». Sono le parole pronunciate dal cancelliere federale tedesco Olaf Scholz domenica 27 febbraio al Bundestag, in un discorso definito “storico” da più osservatori. Poco dopo ha annunciato: «Con il suo attacco alla Ucraina, il presidente Putin ha creato una nuova realtà. Essa richiede una risposta chiara, che abbiamo dato ieri: la Germania invierà armi all’Ucraina per la difesa del Paese».

Scholz ha subito compreso che la guerra scatenata da Putin segnava la fine della politica tedesca sin qui seguita nei confronti della Russia, imponeva una solidarietà con l’Ucraina (limitata, però, dalla necessità di evitare un allargamento del conflitto) e, soprattutto, richiedeva una risposta immediata che servisse innanzitutto a tenere unita l’Unione Europea.

Fino al 24 febbraio la politica tedesca aveva provato a mantenere il dialogo aperto con Mosca, si può contestare il modo con cui sia stato condotto ma certo da Gerhard Schröder ad Angela Merkel sino a Olaf Scholz, la Germania ha sempre cercato, giustamente, di farsi carico delle richieste di Mosca. A differenza di quello che si pensa, non è mai stata una questione puramente “economica”, nonostante oggi sia facile rinfacciare a Schröder la sua (senz’altro discutibile per tutta una serie di ragioni) presenza nei Consigli di sorveglianza nei giganti energetici russi, la prova della penetrazione russa in Europa, un continente ormai corrotto dal denaro di Mosca, come da più parti si afferma. Questa lettura, molto diffusa anche in Germania, non coglie minimamente il senso della politica tedesca con la Russia: era infatti giusta l’ipotesi del Wandel durch Handel, cioè di continuare a tenere una porta aperta per il commercio con la Russia, che avrebbe garantito vantaggi anche alle imprese europee e definito una convivenza con la Russia, contro la quale non è possibile una pace in Europa, come da decenni sanno i tedeschi.

Per quanto altalenante possa essere apparsa la politica europea (in questo concordano sia i fautori della strategia sin qui seguita che i suoi oppositori), spesso incapace di prendere sul serio le richieste russe relative alla sicurezza del Paese, il 24 febbraio segna davvero una svolta, non solo sulla questione energetica, anch’essa ovviamente rilevante.

Perché la guerra contro uno Stato ai confini diretti con l’Unione Europea non si può spiegare semplicemente come reazione all’allargamento della NATO. Fino all’ultimo i tedeschi hanno provato a evitare uno scontro con Mosca – accusati per questo da gran parte della stampa occidentale di esserne succubi –, ma l’attacco militare richiede una risposta completamente nuova.

La guerra rimette in discussione la capacità stessa dell’Unione Europea di difendere in propri confini, riproponendo il problema di quanto il baricentro (politico, geopolitico, strategico, ma anche ideologico e culturale) dell’Unione Europea sia cambiato con l’allargamento a est del 2004. Sono innanzitutto i Paesi dell’Europa dell’Est e in particolare la Polonia che Scholz ha voluto immediatamente rassicurare, perché sono storicamente quelli più scettici sulla strategia sin qui seguita da Berlino con la Russia e anche quelli che, confinando direttamente con la Federazione Russa, hanno una percezione completamente diversa dalla nostra dell’aggressiva politica del Cremlino.

Era necessaria chiarezza perché il messaggio arrivasse a destinazione e non si aprissero nuove turbolenze nell’Unione: «Putin vuole riorganizzare completamente i rapporti in Europa e a questo scopo non esita ad utilizzare la forza armata. Lo vediamo oggi in Ucraina. Quali risorse ha disposizione la Russia di Putin e di cosa abbiamo bisogno per fronteggiare questa minaccia, oggi e in futuro?». È questa la parte del discorso con la quale il cancelliere ha annunciato anche spese straordinarie per la difesa: proprio per dare sostanza alla sua comprensione delle preoccupazioni dei nostri concittadini europei a est, Scholz sa di non potersi limitare a semplici promesse ma deve garantire anche quelle risorse indispensabili per sostenere la svolta nelle politiche di difesa. Da qui la decisione di annunciare un fondo speciale di 100 miliardi di euro, il cui utilizzo sarà ancorato in Costituzione tramite un emendamento al Grundgesetz, per la Bundeswehr, l’esercito federale.

La scelta di Scholz è “europeista” sin dall’inizio e non ha alcun senso parlare di un “riarmo” tedesco, evocando altri momenti storici che poco hanno a che fare con la situazione attuale. Sia dopo la Prima che la Seconda guerra mondiale la Germania fu obbligata a una smilitarizzazione: soprattutto negli anni tra le due guerre, quella del riarmo era la rivendicazione di una piena sovranità considerata perduta. Mentre dopo il 1945 il riarmo tedesco (occidentale) maturava nel conflitto, politico e ideologico, tra capitalismo e comunismo, tra Occidente e Oriente. Di tutto questo non c’è traccia nella scelta del cancelliere federale che sa bene di dover rispondere a una sfida completamente nuova: la scelta tedesca serve a indicare un cambiamento di rotta, indispensabile per tranquillizzare il fianco orientale dell’Unione Europea. Ma anche ad avviare una discussione dentro l’Unione stessa: chi ha davvero timore di un presunto “riarmo” della Germania, a questo punto può solo lavorare al tetto europeo anche per la difesa, cioè a un rafforzamento del progetto di unificazione politica continentale. L’esercito costituirebbe un passo in avanti verso la definizione dell’Unione come vero soggetto politico mondiale, autonomo e con il ruolo di potenza del centro, mediatrice tra gli altri poli.

La cifra stanziata in sé è “storica” fino a un certo punto: i 100 miliardi assicureranno di raggiungere, per i prossimi tre anni, l’obiettivo NATO del 2% del PIL per la difesa; bisognerà poi capire come il governo federale intenderà muoversi negli anni successivi. Il problema, del resto, non è dato dalle risorse: i Paesi dell’Unione Europea spendono in difesa, ad esempio, una cifra di gran lunga superiore a quella russa.

Più complesse e rilevanti sono le questioni relative al come spendere (in modo più efficace e razionale), all’annosa questione delle armi atomiche e soprattutto alla dimensione istituzionale. Una forza armata europea, per poter esercitare anche efficacemente il suo potenziale dissuasivo rispetto ad altri Paesi, deve essere in grado di attivarsi in tempi rapidi e di avere un controllo unificato: non può più essere la somma di diversi eserciti, i quali richiedono sempre l’autorizzazione dei propri parlamenti per intervenire. Tuttavia, anche un esercito continentale non può fare a meno di regole e di una struttura istituzionale che ne disciplini il funzionamento e ne assicuri il controllo democratico. Questa è la vera sfida aperta dalla decisione di Scholz, che ha poco a che fare con il vecchio dissidio tra Francia e Germania o con i “nazionalismi” degli Stati Maggiori (e cioè con i generali di uno Stato indisponibili a ricevere ordini da quelli di un altro), e più sulla necessità di definire una cornice normativa e istituzionale per le forze armate continentali.

È qui che, forse, troverebbe spazio anche una politica che sappia offrire una riflessione sulla responsabilità relativa alla gestione di questo nuovo potenziale dell’Unione Europea, sul come utilizzarlo e su come impiegarlo anche in contesti diversi. E che riesca anche comprendere la dimensione forzatamente offensiva della politica russa, che ne cela una intrinseca debolezza: una comprensione che, terminata la guerra e garantita la sovranità ucraina, dovrà costituire la base per riprendere un dialogo con Mosca.

Immagine: Olaf Scholz, Washington, DC, Stati Uniti (7 febbraio 2021). Crediti: steflas / Shutterstock.com

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