«La più grande sfida dalla fine della II Guerra mondiale», così Angela Merkel, rivolgendosi direttamente ai tedeschi in un messaggio televisivo straordinario, a proposito della pandemia ha ribadito: «La questione è seria». La gestione da parte della autorità tedesche della pandemia è riuscita, sino ad oggi, a contenere il contagio o, come si dice ormai comunemente, ad “appiattire la curva” e a rallentare la diffusione del virus («Ma la prima fase non è ancora finita. Restano da chiarire alcune cose e, soprattutto, il numero dei contagiati asintomatici» riportano dal Robert Koch Institut). I motivi del successo sono diversi: il sistema sanitario ha retto nei primissimi giorni di diffusione del virus, riuscendo a isolare efficacemente i contagiati e a utilizzare in modo rigoroso e mirato i tamponi, come del resto avvenuto in alcune regioni italiane. I medici di base sono stati indispensabili nell’evitare una diffusione troppo veloce, come pure la preparazione del personale negli ospedali. La dotazione dei letti di terapia intensiva (28.000), il gioco di sponda tra Krankenkasse e medici di base, il rinvio per tempo delle operazioni procrastinabili e la separazione rigida degli infetti dagli altri hanno fatto il resto. Indubbiamente hanno giocato un ruolo anche alcuni fattori sociali, come ad esempio la circostanza delle persone anziane che vivono in case di riposo e che sono state quasi da subito isolate. Ma forse merita di essere citato anche dell’altro.

Il governo federale ha scelto una strada precisa, vale a dire scommettere sul sistema federale. Sembra impossibile da raccontare, ma quella che viene definita come la “donna più potente del mondo” non ha il potere di chiudere le scuole tedesche, attribuito invece ai Länder. Cosa che lascia allibiti molti commentatori. Senza dover ricorrere al Sacro Romano Impero, come ha fatto il Guardian, più modestamente a 101 anni dalla Costituzione di Weimar che trasformò il pluralismo del Reich in un vero e moderno sistema federale, scelta riconfermata poi nel Grundgesetz, contrattato con le Autorità alleate, quello tedesco, se continuerà a gestire con successo la pandemia, costituirà un modello ‘europeo’ di gestione della crisi da affiancare a quello cinese. E sarà una buona notizia per tutti.

Non è stato un percorso semplice: all’inizio le parti più conservatrici del Paese chiedevano misure rigide e centralizzate – oltre alla chiusura di tutti i confini: cosa che la destra tedesca chiede praticamente ad ogni occasione, anche quando fa solo danni –, ma anche a Berlino, nella città-Stato amministrata da SPD, Linke e Verdi, si chiedevano norme federali, mentre alcuni Länder, l’immancabile Baviera, preferivano percorrere strade autonome. La cancelliera e il governo hanno resistito a ogni critica, ricondotto alla ragione i Länder inadempienti e così, dalle riunioni tra Federazione e Länder, venivano fuori dei ‘suggerimenti’, che poi i Parlamenti e i governi locali dovevano concretizzare in norme.

Perché è così importante aver confermato la scelta federale, che in molti Paesi è apparsa quasi un controsenso, dato il rischio dell’epidemia? Addirittura, sono stati messi in dubbio i dati che il Robert Koch Institut diffondeva e diffonde quotidianamente: l’ipotesi era quella di falsare i dati, per evitare misure draconiane che indebolissero l’economia. Misure che puntualmente sono state prese quando lo sviluppo della pandemia lo ha richiesto: aboliti le assemblee e i concerti, chiusi i musei e le biblioteche. Alcune aziende fermavano la produzione. L’agricoltura, privata dei lavoratori immigrati provenienti soprattutto dall’Est, vive attualmente un problema enorme.

La risposta sta nella necessità di coniugare diritti individuali, democrazia, trasparenza e lotta alla pandemia in un mondo che, purtroppo, potrebbe essere costretto, per via della sua interconnessione globale, a dover fare i conti anche in futuro con emergenze di questo tipo. La scelta federale responsabilizza le autorità locali, articola la risposta sulla base della effettività della minaccia (le misure tedesche non sono mai arrivate ad un vero e proprio divieto di uscita di casa, ma in alcuni contesti i Länder hanno assunto misure più radicali, come la chiusura, almeno temporanea, delle spiagge, dei parchi ecc.), permette una collaborazione autentica tra istituzioni e cittadini.

L’emergenza, comunque, ha svelato anche le debolezze del sistema sanitario tedesco: posti in terapia intensiva certamente superiori alla media europea ma mal distribuiti sul territorio, personale sanitario pagato malissimo e, in più di una struttura, insufficiente (e, in particolare, salari e condizioni di lavoro del tutto inadeguati: da qui alcuni attacchi dei medici contro il ministro Spahn), digitalizzazione della sanità praticamente inesistente. Tant’è che solo con l’inizio della pandemia si è provato a recuperare il tempo perduto.

Tuttavia, la gestione per ora premia la cancelliera e il suo partito la CDU – che avrebbe dovuto tenere il Congresso per scegliere il nuovo presidente a fine aprile: evento che, ovviamente, è stato rinviato – sembrano essere condivise dai cittadini: la CDU è in crescita nei sondaggi, mentre crollano i Verdi, che nell’ultimo anno erano arrivati a percentuali sempre più considerevoli, scavalcando la SPD e raggiungendo i conservatori. Nel corso della crisi, però, sono letteralmente scomparsi, incapaci, almeno per ora, di assumere una posizione autonoma da quella del governo.

Tuttavia, se le elezioni federali sono ancora lontane (settembre 2021), la Germania si prepara al semestre di presidenza dell’Unione Europea, che deterrà dal prossimo 1° luglio. È in questa sede che Angela Merkel avrà la sua ultima opportunità di contribuire allo sviluppo dell’Unione. Questa occasione, per ora sfuggita a molti commentatori, è di estrema rilevanza e sarà l’occasione per verificare quanti governi nazionali, oggi uniti da quello che è poco più di uno slogan («Eurobond»), saranno disposti a concedere in termini di sovranità nazionale da destinare a quella federale: sarà possibile verificare, ad esempio, se il governo italiano produrrà una proposta quantomeno più organica su questo strumento.

C’è da attendersi una collaborazione ancora più stretta tra la cancelliera e la SPD, in particolare i ministri Scholz e Maas (cosa che rischia di rinviare il processo di rinnovamento del partito lanciato dopo l’ultimo Congresso). La gestione della crisi ha già rivelato scelte importanti del governo tedesco che poi sono state trasmesse sul piano europeo: le tre colonne dell’accordo del 9 aprile all’Eurogruppo portano proprio la firma dei due ministri socialdemocratici, che le avevano anticipate in un editoriale diffuso su diversi giornali europei. Vale a dire l’uso del MES e di una linea di credito particolare, senza condizionalità e con una precisa destinazione (il comparto sanitario e la lotta alla pandemia), l’uso della Banca europea degli investimenti, gli interventi per la disoccupazione. Misure che si affiancano a quelle, già previste, dalla Banca centrale europea e che potrebbero essere incrementate da un fondo per la ricostruzione, con il quale Olaf Scholz tenterà di inviare un segnale politico verso i Paesi, come l’Italia, che sembrano essere insoddisfatti dall’accordo. Il fondo potrebbe essere finanziato in modo straordinario e aprire, ci si augura, ad una soluzione politica della crisi. Ancora il ministro Maas, in un intervento sulla Welt, ha parlato di una presidenza dedicata interamente all’emergenza del Coronavirus, sottolineando la necessità di un nuovo multilateralismo e di solidarietà europea e mondiale.

Qui, però, c’è forse un elemento di ambiguità soprattutto da parte del mondo progressista tedesco, ad esempio di Jürgen Habermas, che non ha perso occasione per contestare il governo federale, come già fece in occasione dell’ultima crisi greca, confondendo la politica della cancelliera con quella dei conservatori più reazionari nella Repubblica di Bonn (1949-90). Credere che le difficoltà della riunione dell’Eurogruppo come pure quelle sullo strumento di un bond europeo possano essere superate solo con la “solidarietà” è un errore che può avere effetti nefasti, come già nel 2015. Si tratta di questioni politiche che richiedono complesse misure istituzionali e giuridiche: l’emissione di questi bond va affidata a un’autorità europea, con un mandato chiaro, che dovrebbe vigilare, in tutto o in parte, ex ante o ex post, sulle modalità di utilizzo dei fondi. Su questo il nostro Paese continua a non indicare soluzioni, tantomeno a ricercare intese con quei Paesi preoccupati non (solo) dalla comunitarizzazione del debito (che è comunque presente in ognuna della modalità scelte, Eurobond o MES), ma da un meccanismo che, privo di regole chiare, rischierebbe di essere invocato da ogni Paese in ogni occasione, sfuggendo di mano a qualsiasi tipo di controllo. Se si fa passare per non solidale chiunque abbia legittimi dubbi su questo strumento si fa, consapevolmente o meno, il gioco dei populisti e di quanti pensano che l’attuale struttura europea non sia riformabile. Bisognerebbe invece cercare di definire un rapporto meno ambiguo con Berlino, puntando ad una gestione comune della crisi e ad interventi di riforma vera della struttura istituzionale del continente.

Immagine: Il palazzo del Reichstag, Berlino, Germania (18 marzo 2020). Crediti: Glen Berlin / Shutterstock.com

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