La combinazione di tre variabili sta rendendo la geopolitica molto più visibile e “spettacolare” rispetto al recente passato. L’esistenza di una pandemia, di modi e tempi diversi di affrontarla tra nazione e nazione, con annesso scambio di accuse (se non proprio di ossessioni, vedi Trump e la Cina) da una parte e tentativi di condividere le conoscenze per arrivare prima a una soluzione (il progetto europeo per l’individuazione del vaccino) dall’altra, rendono la politica molto più interconnessa di prima. Questa dinamica è favorita dalla diffusione su larga scala dei social media e dalla possibilità di organizzare il contrasto alle narrative ostili provenienti da altri Paesi senza necessariamente dover aspettare l’attività dei media o l’attivazione delle macchine della propaganda. Tutto questo, inoltre, rende più complicato attivare strategie di pura comunicazione che non tengano conto del dato politico, perché quest’ultimo è rilevabile da molte più persone, e le contraddizioni sono più semplici da denunciare rispetto al passato.

La sintesi di tutto questo restituisce un elemento molto discontinuo, e non si sa quanto duraturo, rispetto a ciò a cui si è abituati (e l’Italia non fa eccezione): ci si occupa di politica estera molto più di prima e secondo modalità più dinamiche rispetto al solito. Provo a sostenere questa tesi attraverso due esempi pratici.

A. La ricerca della polarizzazione sfrenata da parte di Trump nei confronti di chi sta manifestando in seguito all’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto a Minneapolis ha trasformato la questione in un argomento di dibattito realmente globale. Se da un lato è indiscutibile che la politica americana è sempre stata oggetto di attenzioni – talvolta spropositate – nell’anno elettorale, è a mio avviso altrettanto incontestabile che questa vicenda abbia assunto dimensioni simboliche molto più grandi rispetto al solito e non soltanto per l’intensità delle proteste e per l’atteggiamento del presidente degli Stati Uniti (il quale ha forse visto un’insperata via di fuga dalla discussione sul Covid-19 e forse per questo sta utilizzando certi toni). La lotta al razzismo sta diventando, in queste ore, una issue globale, così come globale è la discussione sul Coronavirus.

Ci sono cinque segnali eterogenei ma nient’affatto deboli che stanno rendendo le proteste americane un tema di interesse davvero globale:

1. La scelta di Adidas (multinazionale nata in Germania) di condividere una campagna di Nike sull’argomento.

2. La speculare scelta di XBox, cioè Microsoft, di condividere la scelta di Sony (multinazionale con il cuore in Giappone) di rinviare il lancio della Playstation5 per non togliere spazio all’attenzione che va riservata a ciò che sta succedendo negli Stati Uniti in questi giorni.

3. La scelta di un numero sempre crescente di star dello sport o dello spettacolo, non solo americane e non solo di colore, di prendere posizione (la foto dei giocatori di calcio del Liverpool Campione d’Europa è già un’icona).

4. La scelta di alcuni dipendenti di Facebook di manifestare dissenso, seppur in maniera virtuale, contro la scelta del fondatore Mark Zuckerberg di non segnalare i contenuti violenti o disinformanti di Trump, a differenza di Twitter.

5. La scelta di Angela Merkel di rifiutare l’invito di Trump al G7 di Washington di fine giugno, che ha obbligato il presidente degli Stati Uniti a riorganizzare l’evento in autunno. Queste decisioni sembrano essere accomunate dall’adesione a un paradigma contemporaneo della comunicazione commerciale (e non solo), reso ancora più evidente dalla pandemia: “purpose over profit”, lo scopo prima del profitto, la missione sociale prima del fatturato. Oggi nemmeno i grandi brand hanno paura a schierarsi contro i politici, se questa scelta è in linea con il proprio posizionamento morale: questo è un altro elemento che potrebbe favorire la globalizzazione delle grandi questioni di politica interna.

B. Lo stesso atteggiamento, declinato in modo più furbo e strumentale, sta anche ispirando le strategie contemporanee di soft power. Abbiamo assistito alle passerelle cinesi, russe, cubane, albanesi in Italia durante il momento più duro della pandemia. Singoli momenti di generosità, che allo stesso tempo non possono essere considerati risolutivi dell’emergenza in corso in quel momento, hanno generato un ritorno di immagine di questi Paesi (e della Cina in particolare, come rilevato da un sondaggio SWG di un paio di mesi fa) all’interno della nostra opinione pubblica nazionale. Più della diplomazia hanno potuto una buona photo opportunity e un’eccellente strategia digitale di promozione di queste scelte “micro”. Anche in questo caso assistiamo a una globalizzazione dei temi di politica interna, ma in modo speculare rispetto al caso Trump-Minneapolis: nel primo caso un dibattito americano diventa globale, nel secondo un tema globale diventa un ottimo pretesto per incidere sulla politica interna di altri Paesi.

Sarà interessante scoprire se nei prossimi mesi questa tendenza sarà confermata o se, una volta terminata la pandemia, torneremo più attenti ai temi domestici e questa dimensione interconnessa della politica interna sarà solo una parentesi.

Immagine: Manifestazione per chiedere giustizia per l’uccisione di George Floyd, Lafeyette Square, Casa Bianca, Washington D.C., Stati Uniti (2 giugno 2020). Crediti: Johnny Silvercloud / Shutterstock.com

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