Non si sono ancora spenti gli echi della manifestazione globale Friday for future che lo scorso 15 marzo ha coinvolto milioni di giovani – e non solo – in tutto il pianeta, per richiedere a governanti e semplici cittadini impegni concreti contro il ‘global warming’. L’obiettivo simbolo delle tematiche propugnate dai ragazzi è la cosiddetta emissione zero e uno dei dibattiti più attuali sui metodi per raggiungerla ruota attorno all’opportunità di accelerare il passaggio, per gli autoveicoli, dal motore tradizionale a quello elettrico. Negli ultimi anni, complici anche il ‘dieselgate’ e le inchieste che hanno travolto Volkswagen, Audi e altri marchi, stiamo assistendo a una veloce conversione all’elettrico cui molti guardano con interesse per i benefici che potrebbe portare a tutti gli abitanti del pianeta.

Il nostro benessere, però, ha un costo e sembra che in gran parte lo stiano pagando gli abitanti della Repubblica Democratica del Congo (RDC).

Per fabbricare batterie di auto elettriche e di apparecchi elettronici c’è disperato bisogno di un minerale che per oltre la metà delle riserve mondiali giace in Congo: il cobalto. Si calcola che il Paese ospiti oltre il 60% del cobalto del pianeta e che al suo interno, in particolare nella zona di Kolwezi (900.000 abitanti), capoluogo della Provincia del Lualaba (regione ex Katanga), si estraggano tra il 50% e il 60% delle centinaia di migliaia di tonnellate del minerale (123.000 nel 2016) prodotte in tutto il mondo. Fino a qualche anno fa questo sottoprodotto di nichel e rame, utilizzato esclusivamente ‒ e in minima parte ‒per le batterie degli smartphone (ne bastano 5-10 gr), giaceva nelle ultime posizioni del London Metal Exchange. Ora che la domanda di batterie per auto elettriche ‒ che necessitano tra gli 8 e i 9 kg di cobalto ‒ è schizzata e che il prezzo del minerale ha raggiunto la cifra record di 32.000 dollari a tonnellata (nel 2017 è aumentato del 120%, l’oro del 9%, il petrolio dell’8%), il Congo sta attirando gli appetiti di tantissime multinazionali che hanno letteralmente colonizzato intere zone e favorito un’industria mineraria in cui la deregulation regna incontrastata.

La scoperta di un minerale così prezioso come il cobalto nel sottosuolo in altri luoghi del mondo sarebbe stata salutata come la svolta per lo sviluppo. In Congo si è tradotta in una resource curse, la maledizione delle risorse.

Invece che rappresentare un potenziale di ricchezza e sviluppo per la popolazione locale, l’industria mineraria che ne è derivata, infatti, ha moltiplicato povertà, violenza, inosservanza dei diritti e morte. In quell’area, negli ultimi quattro anni, si è tornati indietro di secoli. La quasi totalità della popolazione è sprofondata in una situazione da prerivoluzione industriale che fa vertiginosamente aumentare i profitti di pochi e costringe alla miseria molti.

Gli abitanti della zona, spinti dalla fame e dalla mancanza di lavoro, si sono riversati in massa in questa attività piatendo un impiego alle multinazionali o improvvisandosi minatori ovunque si scopra un filone di cobalto. I due processi di estrazione in Congo, il modello industriale classico (Large Scale Mining che fornisce l’80% del cobalto mondiale) e l’Artisanal and Small-Scale Mining (che provvede al restante 20%), producono, in un senso o nell’altro, dissesti sociali di vaste dimensioni. Il primo, favorisce un tipo di land grabbing diffuso che espropria le terre sottraendole a chi ci vive, ne delimita altre facendole divenire proprietà privata, deporta fette di popolazione o le obbliga a vivere come recluse. La seconda, innesca un tipo di estrazione ‘do it yourself’ che scatena una vera e propria corsa all’oro grigio da parte di disperati in cerca di sussistenza e provoca, tra gli altri, gravi danni psicofisici come ampiamente dimostrato dalla rivista scientifica Nature. Il tutto, senza alternative reali: oltre la miniera c’è solo la fame.

La filiera delle batterie al cobalto estratto in Congo prevede vari snodi. Il primo, per concessione del governo congolese, lo gestisce la Congo Dongfang Mining, interamente controllata dalla cinese Huayou Cobalt. Una volta terminata la lavorazione, il cobalto viene venduto principalmente a tre aziende produttrici di batterie per veicoli elettrici e smartphone, la Ningbo Shanshan, la Tianjin Bamo (entrambe cinesi) e la L&F Materials (Corea del Sud). Da queste, il prodotto viene a sua volta rivenduto alle multinazionali dei settori automotive ed elettronico (tra le principali Apple, Daimler, Huawei, Dell, HP, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen).

Quando quindi ci spostiamo per le nostre città a bordo di un’auto elettrica convinti di aiutare il pianeta a respirare meglio, stiamo anche alimentando inconsapevolmente uno sfruttamento intensivo di centinaia di migliaia di schiavi moderni, pagati due dollari per dodici ore di lavoro senza pausa, all’interno di cunicoli spesso colpiti da crolli, le cui età, frequentemente, non raggiungono le due cifre.

Questo atroce paradosso è stato portato alla luce per la prima volta dal report di Amnesty International This is what we die for, dell’inizio del 2016. In quel prezioso documento, oltre a far emergere un fenomeno quasi interamente sconosciuto all’opinione pubblica internazionale, si sbugiardavano tantissime compagnie multinazionali che da una parte si presentavano al mondo come paladine della ‘green technology’, dall’altra non si facevano scrupoli a utilizzare migliaia di diseredati, tra cui tantissimi bambini, per estrarre il cobalto in condizioni di totale mancanza di diritti e garanzie, senza generare alcun tipo di benessere per le comunità. «Quella che il World Economic Forum definisce Quarta Rivoluzione Industriale ‒ spiega Cristina Duranti, direttrice della Fondazione Internazionale Buon Pastore ONLUS, una realtà molto attiva nell’area ‒, alimentata da un uso pervasivo delle batterie al litio, si fonda su un sistema di sfruttamento delle risorse minerarie insostenibile e largamente irresponsabile. Nonostante l’aumento dei prezzi del cobalto, la povertà, la fame e i tassi di disoccupazione sono ancora elevatissimi e a fare le spese del connubio tra interessi economici globali e incapacità di gestione responsabile della filiera in RDC, sono i membri più vulnerabili delle comunità locali: i bambini, le ragazze e le donne, per i quali le condizioni di vita e lavoro rimangono bloccate a quelle del mondo pre-industriale, con tassi di lavoro minorile oltre il 70% (40.000 stimati nella regione dell’ex Katanga, ndr) e violenza di genere che sfiora il 100%». La ONLUS, relatrice al Forum su Responsible Minerals dell’OCSE dell’aprile scorso, attraverso un’azione capillare all’interno delle comunità, in pochi anni ha portato 1800 bambini fuori dalle miniere e ridotto del 92% il lavoro minorile in alcune comunità. Ha sostenuto tre cooperative agricole che danno lavoro e sicurezza alimentare a oltre 300 donne e alle loro famiglie e creato “spazi protetti” autogestiti per 5000 persone.

In attesa di una maggiore presa di coscienza sul fenomeno e di misure adeguate per contenerlo che coinvolgano governi e multinazionali, l’unica via percorribile è lavorare all’interno delle comunità locali al fine di promuovere empowerment e consapevolezza dei propri diritti.

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