Non sarà lui ad aprirle, giacché è improbabile pensarlo ancora in carica nell’agosto del 2028 – avrebbe quel giorno 82 anni e sarebbe all’occaso del terzo mandato presidenziale: il peggiore degli incubi per i suoi oppositori – e non è del resto nemmeno stato motore né artefice di candidatura e assegnazione. Eppure, quando a Lima, il prossimo 13 settembre, la sessione del CIO designerà con tutti i crismi dell’ufficialità la città di Los Angeles quale sede della XXXIV Olimpiade (l’accordo c’è già e la votazione sarà pro forma: nel 2024 toccherà a Parigi, quattro anni più tardi a L.A.) sarà proprio lui, Donald Trump, a intestarsi il successo.

Con tempismo, si è in realtà già portato avanti. «Working hard to get the Olympics for the United States (L.A.). Stay tuned!», vale a dire più o meno «al lavoro per portare i Giochi negli Stati Uniti», aveva twittato lo scorso 11 luglio, venti giorni dopo avere incontrato alla Casa bianca il presidente del CIO, Thomas Bach, nelle settimane in cui la diplomazia olimpica cercava l’accordo fra i due comitati organizzatori, entrambi originariamente in lizza per le Olimpiadi del 2024, quelle a cui già avevano detto no – a diversi stadi di avanzamento – Amburgo, Roma e Budapest.

Il Comitato olimpico, spiazzato dai ritiri e messo di fronte a una situazione di disinteresse pressoché inedita, ha optato per la soluzione meno complicata: assegnare congiuntamente due edizioni dei Giochi, invitando Los Angeles ad accettare lo spostamento al 2028 e consentendo così alla città americana un’assegnazione sicura quale unica candidata, con ben undici anni di anticipo (quando in genere l’assegnazione avviene sette anni prima) e senza passare dai rischi di un’eventuale gara con altre pretendenti nel caso fossero giunte nuove candidature. In questo modo, i vertici dello sport olimpico si toglieranno dall’imbarazzo di un altro quadriennio di autoeliminazioni: mai, infatti, prima della corsa ai Giochi del 2024, le Olimpiadi erano parse, nell’immaginario di alcune parti politiche, non come un’opportunità da cogliere ma come una peste da evitare in chiave economica.

Una visione, quest’ultima, diametralmente opposta a quella di Trump, businessman che nei Giochi vede, al contrario, una vera e propria opportunità di rilancio. Al CIO, preoccupati dal Muslim ban e da alcune politiche contrastanti con gli ideali olimpici da parte dell’amministrazione Trump, hanno tirato un sospiro di sollievo dopo essere riusciti a spostare Los Angeles al 2028, quando alla Casa bianca siederà un altro presidente. Ma proprio per questo la macchina della propaganda del presidente americano si accinge a utilizzare a proprio immediato vantaggio l’assegnazione che verrà annunciata a Lima.

Eppure, per paradosso, era stata proprio l’amministrazione Obama a caldeggiare e supportare la candidatura di Los Angeles, città da anni governata da sindaci democratici (dal 2013 in carica è Eric Garcetti), dopo anni di bids regolarmente sconfitte: si pensi a New York e Chicago, quarte in sede di elezione della città ospitante dei Giochi rispettivamente del 2012 e del 2016. Quando, nel 2009, il CIO decise di assegnare le Olimpiadi 2016 a Rio de Janeiro Barack Obama, al suo primo mandato, aveva proseguito nel supporto dell’amministrazione di George W. Bush per Chicago e si era presentato di persona a Copenaghen, per seguire lo svolgimento della 121a sessione del Comitato olimpico, quella che avrebbe scelto la sede dei Giochi. Nelle votazioni Chicago però giunse dopo Rio, Madrid e Tokyo, ultima delle quattro finaliste. Uno smacco che Obama non digerì (definì la decisione del CIO «a little cooked», che può essere tradotto come «un po’ truccata») e che, cinque anni più tardi, Trump gli avrebbe ricordato, al solito, con un tweet al veleno. Era il 24 febbraio 2014, in occasione dei Giochi invernali di Sochi: «Che vi piaccia o no, i russi hanno fatto un ottimo lavoro ospitando le Olimpiadi! E ricordate di quando Obama andò in Europa per arrivare solo al quarto posto...», in riferimento proprio a quel viaggio in Danimarca.

I due citati non sono gli unici messaggi del presidente degli Stati Uniti riguardanti le Olimpiadi, eppure, nel corpus dei tanti affidati al suo staff negli ultimi anni – ve ne sono anche diversi che criticano le medaglie degli atleti cinesi a Londra e Sochi, spesso definiti «cheaters», imbroglioni, una categoria che Trump ha di frequente esteso al modus operandi delle aziende cinesi – sono sufficienti per far prevedere ciò che accadrà dopo Lima.

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