Quasi più sorprendenti delle vittorie militari che hanno portato i Talebani a riconquistare l’Afghanistan sono le vittorie comunicative che questi hanno saputo inanellare nei primi giorni al potere. In realtà, questa capacità di riposizionare il gruppo attraverso un uso consapevole dei media e di messaggi apparentemente più moderati è proprio una delle chiavi per spiegare le vittorie sul terreno e potrebbe anche aiutare a comprendere cosa aspettarsi per il futuro dell’Afghanistan e dei suoi rapporti con il resto del mondo.

Quando negli anni Novanta è comparso per la prima volta nei radar occidentali il “marchio Taliban” (inteso in questo caso in senso non tanto grafico, quanto di identità complessiva del brand, per restare nel gergo comunicativo) non c’era stato nessun tentativo da parte dell’allora leader, il mullah Omar, di orientarne la percezione attraverso una propria comunicazione strategica. A costruire l’immagine dei Talebani erano stati i fatti: la repressione estrema e brutale delle donne, le lapidazioni e amputazioni pubbliche, le stragi delle minoranze etniche, il divieto di mostrare immagini, l’abolizione della musica registrata, la distruzione delle statue considerate idolatre, l’obbligo di farsi crescere la barba e adottare il look talebano.

Ma i Talebani ritornati al centro dell’attenzione globale nel 2021 si sono presentati in modo completamente diverso: fornendo in tempo reale sui social media il proprio punto di vista sull’avanzamento verso Kabul, facendosi intervistare in televisione da una donna, organizzando una conferenza stampa internazionale nella quale hanno pacatamente rassicurato sull’intenzione di rispettare i diritti umani. Certo, in quest’ultimo caso hanno poi aggiunto che questo valeva «all’interno dei limiti previsti dalla sharia»: ma qualunque spin doctor di Washington o Palazzo Chigi sarebbe stato orgoglioso di tanto lavoro di cesello linguistico.

Chi aveva continuato a seguire i Talebani anche nei periodi più oscuri si era già accorto di questa mutazione comunicativa, avvenuta negli ultimi anni. Al punto da ipotizzare (scherzosamente, ma fino a un certo punto) l’ombra di un’agenzia multinazionale dietro a questa operazione di rebranding dei Talebani_,_ ribattezzati dai francesi Taliban 2.0 (anche per l’importanza che vi ricoprono i nuovi media) oppure Tali-buddies, dal comico americano Stephen Colbert.

Questa nuova attenzione per la comunicazione si spiegherebbe, invece, con una serie di fattori concomitanti, tra sviluppi tecnologici, questioni demografiche e l’esperienza maturata dai dirigenti talebani all’estero.

Nel 1996, in Afghanistan, soltanto una casa su quattro aveva l’elettricità e le infrastrutture cellulari erano inesistenti. Far tornare il Paese al Medioevo era stato facile: a parte Kabul, buona parte dell’Afghanistan lo era già. Negli ultimi venti anni questa situazione è cambiata radicalmente. Anche se persistono i black-out e la povertà diffusa, attraverso i propri smartphone gran parte degli afghani sono oggi parte del flusso informativo globale quanto noi.

Certo, i Talebani degli anni Novanta avrebbero comunque provato a vietare subito tutto questo. Ma anche loro non sono rimasti immuni a tali trasformazioni, per almeno due ragioni. La prima è l’esperienza maturata all’estero da parte di molti leader, che dopo l’invasione americana hanno passato dieci o quindici anni in esilio, in luoghi come Doha, dove erano a contatto quotidiano con gli strumenti e le potenzialità dei media contemporanei. Durante l’esilio hanno anche riflettuto sul modo in cui avevano perso il potere la prima volta, ovvero soprattutto per mancanza di amici tra le grandi potenze. La seconda ragione è il fatto che l’Afghanistan è un Paese giovanissimo, nel quale oltre la metà della popolazione è nata dopo gli attentati dell’11 settembre e il crollo dei Talebani. Dunque, anche quelli tra loro che erano contrari all’occupazione americana e si sono avvicinati ai Talebani, restano comunque nativi digitali, che quindi non rifiutano la tecnologia, ma la impiegano per gli scopi in cui credono.

Per capire quali siano questi scopi, occorre passare a una sorta di breve analisi comunicativa del fenomeno “Taliban 2021”.

Innanzitutto il marchio: i Talebani non usano più il termine Talebani (che significa “studenti” e richiamava le loro origini nelle scuole coraniche), ma stanno utilizzando in modo deciso e continuativo il nome di “Emirato islamico dell’Afghanistan”. Ufficialmente questo era già il nome del loro Stato nel periodo tra il 1996 e il 2001, ma allora l’uso diffuso di “Talebani” veniva incontro alla necessità di rimarcare il fatto che al potere ci fosse il proprio gruppo, mentre oggi sembra essere predominante la necessità di mostrare l’unità dello Stato afghano e il proprio rappresentarlo per intero.

In linea con i vecchi divieti sulle illustrazioni, meno attenzione è rivolta all’aspetto iconografico. C’è ovviamente una bandiera, con raffigurata la shahādah, la testimonianza di fede islamica («Non c’è altro dio che Allah, e Maometto è il Suo messaggero»), ma non ricopre la stessa rilevanza comunicativa che aveva, per esempio, quella nera dell’ISIS. Per il resto, sempre sul fronte dell’“immagine coordinata”, non è cambiato il look dei Talebani, ma durante diversi incontri ufficiali sono comparsi a sorpresa dei sorrisi su alcuni dei loro volti. Non sempre convincenti, ma comunque un aspetto inedito e probabilmente studiato, per marcare un distacco rispetto alla feroce imperturbabilità mostrata pubblicamente al tempo della loro prima conquista del potere.

Comunicativamente sofisticata appare anche la narrazione centrale che ha guidato la loro riconquista del potere, basata paradossalmente sul concetto di libertà: proprio la ventennale presenza straniera, costellata da corruzione, fallimenti e talvolta anche crimini di guerra, ha consentito ai Talebani di presentarsi come i “buoni”: come i liberatori arrivati a restituire la dignità, l’indipendenza all’Afghanistan e ai suoi cittadini. Incidentalmente (nel senso che questo aspetto non fa parte della strategia generale, ma ne è un’applicazione pratica) persino l’hijab e il burqa vengono presentati come una delle “libertà” che le donne potranno ora riottenere, dopo vent’anni di “oppressione straniera”, che glielo aveva impedito. Spudorato, certo, ma non a caso. E potrebbe funzionare. Anche perché questa narrazione di fondo viene applicata in modo mirato a seconda dei destinatari e segmenti di riferimento.

La comunicazione interna, ovvero quella rivolta ai propri seguaci, operativi e sostenitori, è multiforme e policefala. Come spesso avviene in quella che alcuni analisti chiamano “jihadosfera”, questa passa soprattutto attraverso messaggistica istantanea e gruppi on-line, utilizzati sapientemente sia per comunicare tra i propri membri, sia come strumento di reclutamento. Viene quindi prodotta da molti utenti differenti e non soltanto da un’autorità centrale. Questo consente anche di segmentarla all’occorrenza: con contenuti più estremi o più moderati a seconda delle necessità: così si può ordinare pubblicamente di non compiere atti di violenza contro gli sconfitti e far girare in contemporanea i video di chi fa esattamente il contrario, tra commenti trionfali.

Ma il cuore della nuova comunicazione dei Talebani, almeno di quella controllata in modo centralizzato, è apparsa in questi giorni la comunicazione esterna. Anche questa è su diversi livelli, ovvero in parte rivolta ai cittadini afghani e in parte rivolta alla comunità internazionale. Ma in entrambi i casi il registro utilizzato è attualmente molto simile, ovvero basato sulla pacificazione nazionale, almeno da parte delle fonti ufficiali.

L’esempio tipico è la prima conferenza stampa dopo la presa del potere, rilasciata dal portavoce Zabihullah Mujahid, che si è concentrata «sull’amnistia per tutti quelli che avevano collaborato con gli occupanti», sulla protezione garantita a tutti i militari e civili stranieri che intendevano lasciare il Paese e «sulla tutela dei diritti delle donne e delle minoranze», ovviamente sempre «nel framework della sharia».

In contemporanea, venivano condivisi sui media gli ultimi aggiornamenti sull’altro filone comunicativo maggiormente esplorato dai Talebani, quello delle relazioni pubbliche. In piccolo, relazioni pubbliche mirate sarebbero state utilizzate anche tatticamente durante la riconquista del Paese: raggiungendo attraverso mediatori e contatti mirati i generali e i signori della guerra delle diverse province e convincendoli così ad arrendersi senza combattere, in cambio dell’incolumità o di altri guadagni personali.

Ma il vero salto di qualità, su questo fronte e a livello internazionale, si è avuto con le trattative del 2020 tra gli Stati Uniti e i Talebani. A Doha, rappresentanti dell’amministrazione Trump e leader Talebani si sono incontrati, sostanzialmente alla pari, per concordare il ritiro delle truppe americane. Forti di questa legittimazione, rappresentati dei Talebani hanno iniziato a comparire in trasmissioni televisive afghane per spiegare il proprio punto di vista e addirittura il New York Times ha ospitato un editoriale di uno dei massimi dirigenti Talebani, Sirajuddin Haqqani. Da allora, ogni contatto ottenuto dai Talebani è stato utilizzato come riconoscimento di legittimità internazionale, consentendo di aprire nuove porte. Fino a recenti incontri come quello con il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi.

Tutto ciò ha la funzione di confermare la narrazione, che ai Talebani più preme che sia veicolata dai media verso i destinatari internazionali: l’Emirato islamico dell’Afghanistan non è il misogino e distopico regno del terrore che ricordiamo dal passato, ma una forza conservatrice che può garantire l’ordine e dunque essere un potenziale partner per la stabilità internazionale. Così, se nei cinque anni della loro prima volta al potere, i Talebani avevano ottenuto il riconoscimento di tre soli Paesi (Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), questa volta, a distanza di pochi giorni dalla ripresa di Kabul, già fioriscono i rapporti ufficiali con grandi potenze regionali e globali come Russia, Cina e Iran.

La prossima opportunità, in questo senso, sarà la formazione del nuovo governo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Si parla di trattative in corso con l’ex presidente Hamid Karzai e addirittura è stata ipotizzata l’inclusione di donne nell’esecutivo (in qualche forma). Poco importa se poi niente di tutto questo si materializzerà. Perché nel frattempo il messaggio di apertura sarà già circolato, proprio quando, come in questi giorni, l’attenzione dei media globali è al massimo.

Certamente, resta il problema di ogni nuova strategia di comunicazione: che non funzioni quando venga percepita come disonesta. Al di là di tutte le campagne promozionali o dei discorsi curati, se questi contraddicono i fatti, è difficile nasconderne l’evidenza: i contenuti, alla lunga, rompono la forma. E stando a cosa sappiamo da chi sta vivendo sulla propria pelle queste vicende, i contenuti dei Talebani sarebbero gli stessi di sempre: oscurantismo e oppressione. Ma questo “alla lunga” può essere un tempo molto ampio se gestito bene, così da essere sufficiente a normalizzare la situazione, ottenendo un riconoscimento internazionale e l’avvio di relazioni diplomatiche ed economiche. A quel punto, qualunque cosa dovesse succedere alle donne afghane o agli Hazara, sarebbe una questione di politica interna. Per la quale nessuno si azzarderebbe a intervenire militarmente.

I Talebani, per esempio, hanno già mostrato di saper smentire in tempi record gran parte di ciò che dicono. Hanno firmato accordi con gli USA per una gestione armonica dell’interregno, dopo la partenza americana, per poi prendersi l’intero Paese con le armi neanche un mese più tardi. Una volta alle porte di Kabul, hanno comunicato che non sarebbero entrati e non l’avrebbero presa con la forza (anche costringendo al ritiro alcuni propri entusiasti, che erano entrati in anticipo), ma un paio d’ore dopo erano già in centro e nel palazzo presidenziale. Anche se, in questo caso, coerentemente con la strategia di comunicazione, sono stati attenti a inquadrarlo in un contesto di moderazione: «siamo stati costretti dall’incapacità del precedente governo collaborazionista, scappato lasciando Kabul nel caos, a intervenire per garantire l’ordine e la sicurezza di tutti...».

Tali episodi potrebbero comunque essere accettati dai soggetti internazionali, all’interno di un gioco delle parti diplomatico. Ma più difficilmente potrebbero esserlo altri comportamenti che smentissero completamente questo nuovo brand moderato. Come, ad esempio, le crescenti notizie su oppositori e giornalisti uccisi (con una metodologia che secondo la giornalista afghana Farahnaz Forotan ricorda esattamente quanto avvenne al momento della prima presa del potere nei primi anni Novanta), di donne maltrattate e di burqa e hijab consegnati alle bambine all’ingresso delle scuole (almeno finché potranno andarci).

Per ora, queste differenze tra azioni e dichiarazioni sono state spiegate con la possibile presenza di una spaccatura tra le diverse fazioni dei Talebani: ad esempio, quella tra gli esperti leader che stanno rientrando ora dall’esilio e i comandanti sul campo, meno avvezzi alle finezze del “Grande Gioco comunicativo”. Ma se questo fosse vero, e non soltanto l’ennesimo spin per giustificarsi davanti ai media, tale situazione potrebbe infine rappresentare un esempio del vero rischio per questo nuovo corso comunicativo talebano: ovvero il fatto che il rebranding venga preso sul serio dalle frange più estremiste, come i molti salafiti e sostenitori dell’ISIS presenti sul territorio, facendo loro vedere i Talebani come traditori, scesi a compromessi con il nemico.

Può sembrare paradossale ipotizzare i Talebani come involontari alleati nella lotta al terrorismo internazionale, ma in realtà potrebbero non esserlo nemmeno in modo così involontario: poche ore dopo avere preso il controllo del carcere di Kabul, su Twitter è comparsa la foto dell’esecuzione da parte dei Talebani di un leader dell’ISKP (Islamic State of Khorasan Province, la branca centro-asiatica dello Stato islamico) che vi era imprigionato.

In linea con il proprio rebranding di “affidabile alleato”, un Emirato islamico dell’Afghanistan impegnato a frenare la penetrazione dell’ISIS nell’Asia Centrale, tra gli Uighuri e che tenesse sotto controllo anche al-Qaida, troverebbe porte aperte da parte della Russia, della Cina e degli Stati Uniti. E potrebbe anche essere quanto già successo. A quel punto, se anche all’interno del Paese tornasse a stabilirsi un misogino e distopico regno del terrore, non ci sarebbe più motivo per alcun intervento militare internazionale. E l’immaginaria agenzia di comunicazione strategica prima citata avrebbe ottenuto quanto voluto.

Ma un conto sono i piani strategici, un altro è la loro messa in pratica. Per qualche giorno i Talebani se la sono cavata comunicativamente meglio delle più esperte diplomazie internazionali: tra chi non ha saputo spiegare un tracollo ampiamente prevedibile e chi era direttamente in vacanza (non solo gli italiani, ma anche il britannico Dominic Raab). Ma non sappiamo ancora come sapranno proseguire. Anche perché un’ultima circostanza, da tenere in considerazione, è che con l’arrivo al governo cambieranno inevitabilmente anche molti equilibri di potere all’interno dello stesso gruppo dirigente talebano. Accade a tutti i consulenti di comunicazione, di essere ascoltati quando serve prendere il potere e poi venire messi da parte una volta cambiate le priorità. Magari con la differenza che, in questi sommovimenti, chi ha saputo portare comunicativamente i Talebani nel XXI secolo potrebbe perdere non solo il posto, ma anche la testa.

Immagine: Kandahar nella regione meridionale dell’Afghanistan (novembre 2020). Crediti: Trent Inness / Shutterstock.com

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