A uno sguardo superficiale nessuno direbbe che l’estrema destra in America Latina costituisca una fonte di preoccupazione per i governi della regione. La maggioranza dei Paesi del continente è amministrata da governi che, seppur con le dovute differenze, diremmo progressisti o di sinistra, tanto da far parlare gli esperti di una nuova onda di sinistra dopo quella del primo decennio del secolo. E allora perché dedicare la nostra attenzione all’estrema destra latinoamericana? A nostro avviso non è un esercizio teorico e avulso dalla realtà. Ma cominciamo con il chiederci: è davvero così forte la destra nel continente latinoamericano o siamo di fronte a esperienze singole, di poco conto, che non costituiscono una vera e propria internazionale transregionale?

Facciamo un passo indietro. Qualche mese fa, Vox, il partito di estrema destra spagnolo, ha tenuto un incontro internazionale per celebrare, a detta loro, la storia della Spagna. In quella occasione, hanno convocato in presenza e on-line una serie di leader internazionali che potessero condividere con i militanti e i dirigenti del partito i valori comuni. Ebbene chi c’era in questo gruppo di invitati internazionali? In primo luogo l’estrema destra europea (con Giorgia Meloni in prima fila) e poi esponenti del resto del mondo. Chi c’era per l’America Latina, per restare al continente di cui ci stiamo occupando? C’erano José Antonio Kast, candidato presidenziale cileno, nostalgico della dittatura di Pinochet, che è arrivato al ballottaggio contro Gabriel Boric alle elezioni dello scorso anno classificandosi al primo posto al primo turno con il 27,91% dei voti. C’era poi Jeanine Áñez, presidente golpista della Bolivia e oggi in stato di arresto. C’era anche Álvaro Uribe, ex presidente della Colombia, che durante i suoi mandati si è macchiato di delitti di lesa umanità, di violazione dei diritti umani, è accusato di aver dato grande spazio a reparti paramilitari che sono stati autori di ogni nefandezza nel Paese, comprese sparizioni forzate, omicidi di difensori dei diritti umani, di campesinos, di dirigenti sindacali e di leader dei villaggi. E per questo, per inciso, è oggi sotto processo.

Ebbene in questo gruppo di persone, a nostro avviso, ci sarebbero stati bene e a pieno titolo anche Jair Bolsonaro, l’ex presidente della Repubblica del Brasile che ha minacciato fino all’ultimo la vittoria di Lula, spaccando praticamente a metà il gigante latinoamericano, così come Keiko Fujimori, figlia del dittatore Alberto ed eterna candidata alla presidenza peruviana con un pacchetto di voti consolidato e rilevante tanto da essere battuta da Pedro Castillo, lo scorso anno, con il 50,12% dei voti validi, una vittoria risicata con soli 44.263 voti più di Fujimori. Anche qui un Paese spaccato a metà con le conseguenze che abbiamo visto dopo il 7 dicembre dello scorso anno con il tentato autogolpe di Castillo, la sua destituzione da parte del Congresso e i disordini conseguenti che durano ancora oggi.

Si tratta, a ben vedere, di una internazionale della estrema destra che presenta tanti punti in comune, riferimenti ideologici condivisi, strategie politiche e di comunicazione molto simili. In ogni caso, stiamo parlando di una destra latinoamericana forte, robusta e che gode di ottima salute come forse mai prima da quando la regione è tornata alla democrazia dopo la parentesi luttuosa delle dittature militari. Il principale elemento in comune di questa famiglia politica transnazionale è la guerra al comunismo, che per loro significa guerra a tutte le forme di progressismo che possono incontrarsi in un sistema politico. Da qui discendono una restrizione dei diritti e delle libertà e l’ideale di una democrazia illiberale o, ancora, di una autocrazia elettorale. Fa parte di questa visione del mondo, in cui prevalgono il motto “Dio, Patria e famiglia”, una visione restrittiva, reazionaria e conservatrice del cristianesimo nelle sue varie Chiese. In America Latina, una visione tridentina del cattolicesimo e una visione pentecostale del cristianesimo. Ancora, fanno parte di questo catalogo di valori la retorica sulla sovranità, il recupero di competenze allo Stato nazionale contro le organizzazioni sovranazionali e la difesa degli interessi nazionali nei confronti di qualsiasi organismo sovranazionale regionale cui lo Stato appartenga. In politica economica prevale un neoliberismo spinto, erede, nella regione dei Chicago Boys degli anni Settanta e Ottanta, delle politiche economiche dei tempi delle dittature adattati ovviamente alla globalizzazione neoliberista che questi protagonisti della estrema destra della regione seguono pedissequamente.

A questa estrema destra 2.0 non manca un uso disinvolto dei social media: la campagna di comunicazione è essenziale per diffondere paure e risentimenti nei confronti di un nemico su cui far ricadere le carenze e le debolezze della propria proposta politica o gli insuccessi delle politiche pubbliche attuate. Questa estrema destra latinoamericana non si limita alla competizione elettorale: agita gli animi in grandi adunate di protesta fino ad arrivare all’estrema mobilitazione rappresentata dal caso brasiliano dello scorso 8 gennaio. Ci riferiamo alla mobilitazione dei seguaci di Bolsonaro con l’obiettivo di destabilizzare il sistema con un golpe contro il presidente Lula. Non è un caso che sia avvenuta proprio in Brasile la “Capitol Hill” in salsa sudamericana: Bolsonaro si candida ad essere il campione del politico latinoamericano di estrema destra, un modello per gli altri nella regione. Vale la pena, quindi, approfondire un altro aspetto dell’estrema destra bolsonarista perché evidenzia caratteristiche interessanti e comuni a tutto il subcontinente.

Emblematico è il caso delle relazioni internazionali e di come vengono concepiti i rapporti tra Stati da questo campione sudamericano. Tutte le relazioni internazionali dell’ex presidente brasiliano sono improntate a una costante: l’agenda ideologica prevale sull’interesse nazionale. E questo può costituire un problema oggettivo. Quando si prendono in considerazione le relazioni internazionali il punto di vista dello spettro ideologico della controparte diviene fondamentale. Molto stretti, quindi, sono stati i rapporti con gli Stati Uniti di Trump, ma anche i legami con la Russia di Putin: solo otto giorni prima della invasione dell’Ucraina da parte della Russia, Bolsonaro si trovava a Mosca ed elogiava il suo amico russo. Stessa comunione di intenti con la Polonia e l’Ungheria, due Paesi che in Europa appartengono a pieno titolo al fronte sovranista internazionale e che a livello interno sono ormai due autocrazie elettorali. In America Latina, un rapporto privilegiato era quello con il Guatemala di Giammattei, un leader che ha fatto della difesa dei valori cristiani una parte importante della sua agenda di governo, e con Bukele in El Salvador, Paese che si sta via via trasformando in una vera e propria dittatura elettorale, con pugno di ferro in materia di sicurezza e disprezzo dei diritti umani. Non proprio due giganti latinoamericani! Poco noti ma altrettanto stretti erano i legami con le monarchie del Golfo, a cui lo univano i valori oscurantisti della limitazione dei diritti civili e dei diritti delle donne, monarchie del Golfo che spesso hanno fatto fronte comune con il Brasile negli organismi internazionali.

Identità forte e ben definita, uso spregiudicato dei mass media e dei social network, rete internazionale di partiti politici strutturata e in costante contatto per delineare un’agenda comune transnazionale: ecco i punti forti di questa nuova internazionale della estrema destra mondiale. E l’America Latina ne è una appendice di tutto rispetto con esponenti politici determinati e dal consistente e comprovato consenso. Spetterà ai molti governi progressisti della regione porre un argine alla deriva sovranista che avanza: l’esempio brasiliano del golpe dei seguaci di Bolsonaro insegna che è una destra che può arrivare a minacciare le istituzioni democratiche e le cui azioni potrebbero avere un esito quando queste istituzioni siano particolarmente deboli e fragili. È questo, quindi, il fronte su cui lavorare di più nella regione latinoamericana, il consolidamento delle istituzioni democratiche. Ed è questione che riguarda, che lo si ammetta o meno, anche l’altra sponda dell’Atlantico.

Immagine: Jair Bolsonaro (4 marzo 2023). Crediti: lev radin / Shutterstock.com

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