Il 2018 è destinato a rimanere un anno cruciale nella storia contemporanea cinese, analogamente al 1949, che ha sancito la nascita della “nuova Cina” con la proclamazione della RPC e l’avvio della politica rivoluzionaria maoista, e al 1978, anno del lancio della “politica di riforma e apertura” e del processo di modernizzazione, da parte di Deng Xiaoping, che ha segnato il successo dell’economia cinese nei decenni successivi. Il 2018 segna, infatti, l’avvio ufficiale della “nuova era” di Xi Jinping, che la prima sessione della XIII Assemblea nazionale del popolo cinese (ANP), una sorta di Parlamento che ratifica le decisioni già prese dal Partito comunista cinese (PCC) , riunita a Pechino a partire dal 5 marzo, ha contribuito a sancire.

Nel 2018 l’ANP ha aperto i lavori con il compito di completare il ricambio della classe politica e di ratificare le modifiche al testo costituzionale proposte da un inconsueto plenum del Comitato centrale (CC) del partito riunito alla fine del mese di febbraio – generalmente il CC si riunisce in forma plenaria sette volte in cinque anni, la prima volta subito dopo il Congresso, la seconda all’inizio dell’anno successivo e la terza in autunno; la quarta, la quinta e la sesta a cadenza annuale, e la settima poco prima del Congresso successivo – a ridosso dell’avvio dei lavori delle “due sessioni” (lianghui) plenarie dell’ANP e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, che funge da organo consultivo del Parlamento, e include, tra gli altri, esponenti del mondo dello spettacolo, della cultura, dell’economia, oltre a rappresentare gli altri otto partiti politici legalmente riconosciuti nella RPC.

Tra le modifiche proposte ve ne erano alcune di particolare rilevanza. Tra queste, l’inserimento del “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” (Xi Jinping xin shidai Zhongguo tese shehuizhuyi sixiang), già entrato nello Statuto del partito in occasione del XIX Congresso riunito nell’ottobre del 2017, a fianco al pensiero di Mao Zedong, alla teoria di Deng Xiaoping, all’importante “pensiero delle tre rappresentanze” e alla “visione di sviluppo scientifico” (eredità ideologica rispettivamente di Jiang Zemin e Hu Jintao, rappresentanti della terza e quarta generazione di governanti cinesi).

Oltremodo rilevante era la proposta di eliminare il limite dei due mandati per le cariche del presidente e del vicepresidente, previsto all’articolo 79, comma 3 della Costituzione. Entrambi gli emendamenti, ratificati l’11 marzo, hanno, da un lato, rafforzato la leadership del presidente cinese, facendone l’unico leader, oltre a Mao, a vedere inserito il proprio nominativo nello Statuto del partito mentre è ancora in vita e pienamente in carica (da qui il paragone con il grande timoniere, il cui pensiero era stato iscritto come ideologia guida del partito già nel 1945, in occasione della riunione del VII Congresso); dall’altro lato, hanno conferito a Xi Jinping il ruolo di presidente “a tempo indefinito”, laddove la sua scadenza naturale sarebbe stata nel 2023, contribuendo al contempo a risolvere una incongruenza legata al fatto che le per le altre due cariche ricoperte dal presidente cinese, ovvero quella di segretario generale del PCC e di presidente della Commissione militare centrale, non sono previsti limiti temporali.

A ben vedere, secondo il parere di alcuni studiosi, tali modifiche appaiono in linea con l’orientamento emerso in occasione del XIX Congresso, volto a rafforzare la capacità di governance della leadership del partito, e sono strettamente legate alla necessità di garantire continuità all’ambizioso programma di governo dell’amministrazione di Xi, sia a livello di politica interna – lotta alla corruzione, lotta alle disuguaglianze sociali, lotta all’inquinamento, trasformazione del modello economico – sia di politica estera. L’assenza di vincoli temporali consentirà, infatti, a Xi Jinping di continuare a rappresentare la Cina come capo di una nazione che vuole accreditarsi come una “grande potenza responsabile”, un ruolo che richiede coerenza e forte continuità, e soprattutto realizzare quello che è diventato uno dei principali slogan della quinta generazione di governanti cinesi, ovvero il “sogno cinese” (Zhongguo meng), un sogno che si identifica con “il grande rinnovamento della nazione cinese” (Zhonghua minzu weida fuxing) e che passa attraverso la realizzazione di due obiettivi centenari (liangge yibai nian ‘fendou mubiao’), ovvero la creazione di una “società moderatamente prospera” (xiaokang shehui) entro il 2021, in occasione del centesimo anniversario della fondazione del partito, e la trasformazione della Cina in un “Paese socialista ricco e forte” (fuqiang de shehuizhuyi guojia), entro il 2049, in occasione del centenario della nascita della RPC.

Ciò detto, il secondo emendamento, in particolare, è stato oggetto di diverse polemiche, sia all’estero che in Cina, essendo stato interpretato come un segnale evidente di una decisa involuzione autoritaria del potere, con l’abbandono della logica della leadership collettiva introdotta da Deng Xiaoping nel corso degli anni Ottanta e che, dopo gli eccessi dell’epoca maoista, aveva contribuito ad istituzionalizzare il meccanismo di successione al potere. È importante ricordare come il vincolo costituzionale dei due mandati per le massime cariche dello Stato (presidente e vicepresidente), così come il limite anagrafico dei 68 anni per le cariche di partito (che rappresenta una prassi consolidata, per quanto non codificata), fossero stati voluti da Deng al fine di istituzionalizzare le transizioni di potere ed evitare così l’emergere di nuovi leader carismatici, consentendo al Paese, a differenza di altri sistemi autoritari, di gestire transizioni ordinate per ben 25 anni. Questo ragionamento appare tanto più importante se si considera come, sin dalla sua ascesa ai massimi vertici del partito e dello Stato, Xi Jinping abbia conosciuto una progressiva concentrazione di potere nelle sue mani, grazie soprattutto alla pervasiva campagna anticorruzione contro le “tigri e le mosche” (laohu yu cangying) – i “grandi e i piccoli” funzionari corrotti, suoi potenziali nemici – che ha rievocato nelle menti dei più le purghe di epoca maoista, ma anche all’accumulazione continua di cariche e titoli, al punto da essere ribattezzato come il “presidente di tutto”, in linea con il suo riconoscimento formale, in occasione del plenum del partito dell’ottobre del 2016, di “core leader” (hexin lingdaoren).

Cionondimeno, è presumibile che la sessione plenaria dell’ANP del 2018 rimarrà impressa nelle generazioni future dei fedeli del partito (ma non solo) come il momento in cui il presidente Xi ha finalmente liberato il Paese dal complesso di “vittimismo” che ha a lungo condizionato i rapporti della Cina con le potenze occidentali, e posto la parola fine al famigerato “secolo di umiliazione” (bainian chiru), iniziato con le guerre dell’oppio a metà dell’Ottocento, attraverso l’implementazione del suo “sogno” per la Cina e la creazione di un nuovo anniversario da omaggiare solennemente.

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