È una rotta lunga e tormentata quella che il governo colombiano di Juan Manuel Santos e le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC) hanno deciso di intraprendere. Ma la via di un negoziato politico per arrivare alla pace è la sola ormai percorribile. Dopo quasi sessanta anni di conflitto armato è ormai evidente che nessuna delle parti in causa sarà mai in grado di sconfiggere militarmente l’altra. È tramontata l’ipotesi di un cambio di regime attraverso la lotta armata, essendo la guerriglia colombiana ormai decapitata nei suoi vertici militari e decimata nel numero di unità operative, per non parlare della totale mancanza di consenso nella società civile e nell’opinione pubblica e del mutamento genetico delle proprie motivazioni ideali, apparendo in questa fase molto più interessata al narcotraffico che al potere politico. Neppure il governo colombiano, tuttavia, è parso mai in grado di sconfiggere definitivamente il suo nemico storico sul terreno militare: non sono bastati gli immensi finanziamenti del Plan Colombia per piegare le diverse guerriglie e l’obiettivo pare allontanarsi ora che le risorse degli Stati Uniti sono poche e centellinate, a causa della crisi economica e finanziaria certamente, ma anche perché l’impegno nel contrasto alla criminalità organizzata, alle migrazioni e al narcotraffico si è spostato nell’area centro-americana e in Messico. La decisione di procedere adesso nei negoziati non è stata semplice o scontata. Tutt’altro. La costruzione delle condizioni politiche e diplomatiche e del consenso sociale è stata gestita con impegno, tenacia e molta cautela durante gli ultimi due anni. Ci sono voluti il coraggio e la determinazione del neopresidente, Ministro della difesa dell’ex presidente Alvaro Uribe – quello della “guerra senza se e senza ma” e della famigerata “sicurezza democratica” – per convincere l’opinione pubblica, la politica e la comunità internazionale che fosse davvero arrivato il momento di mettere la parola fine alla stagione del terrore. A differenza del suo predecessore, infatti, Santos ha riconosciuto al conflitto armato lo status di guerra civile e ha dimostrato con i fatti come il negoziato politico non fosse da considerare un segnale di debolezza dello Stato ma, al contrario, fosse la prova di una consapevole maturità politica e di un consolidamento delle istituzioni democratiche che il Paese considera ormai irreversibile. Un ruolo importante - e i molti scettici dovranno ammetterlo senza riserve - ha avuto senza dubbio il Vicepresidente Angelino Garzón, un uomo che ha passato la vita a lottare per i diritti dei lavoratori prima nel sindacato e poi negli organismi internazionali, e che ha tenuto per sé alcune deleghe importanti tra le quali quella dei diritti umani, contribuendo a cambiare il profilo istituzionale della vicepresidenza trasformandola da istituzione di mera rappresentanza ad attore politico determinante per la trasformazione del Paese. Un altro segnale importante, anch’esso in controtendenza rispetto al recente passato, è stato il cambio nella politica estera intrapreso dal nuovo governo, con un progressivo, consapevole e convinto spostamento dell’asse d’interesse verso sud. Senza trascurare la partnership strategica con gli Stati Uniti, la politica colombiana è sembrata privilegiare un dialogo politico più solido con la regione latina: si devono a questo mutamento di agenda una gestione più accorta e matura del “dossier Venezuela” così come il consolidamento delle relazioni con il Brasile di Dilma, fino a un rapporto più rispettoso e civile con gli altri Paesi confinanti. Si è trattato di atti e fatti forieri di conseguenze politiche e che hanno contribuito a ridefinire gli spazi geopolitici della Colombia confermandola come il Paese “ponte” tra l’America del Sud e l’istmo di Panama. Non è un caso che il sostegno più concreto al processo di pace sia venuto proprio dai governi e dalle organizzazioni politiche della regione latinoamericana. La stabilità democratica e il pieno controllo di quella zona della selva amazzonica al confine tra Colombia, Venezuela, Ecuador e Brasile è una priorità in termini geostrategici, di sicurezza e di tutela della biodiversità di tutta l’America del Sud. Al contrario, va denunciata una sostanziale indifferenza dell’Unione Europea a questo processo. Incapace, in questa fase, di esprimere leadership e visione politica, il vecchio continente non ha saputo ritagliarsi neppure un ruolo di mediazione e di accompagnamento diplomatico. A parte la Norvegia, infatti, che ospiterà nella sua capitale la prossima tornata di colloqui prevista a ottobre – dopo gli incontri preparatori/esplorativi avvenuti all’Avana tra il 23 febbraio e il 26 agosto di quest’anno, con Norvegia e Cuba come garanti e Venezuela come paese facilitatore, colloqui che hanno condotto alla firma dell’Accordo quadro – il silenzio di Bruxelles ha sorpreso quanti non si rassegnano alla supremazia dell’economia sulla politica da parte di una regione che è parsa, infatti, più interessata a chiudere il Trattato di Libero Commercio con la Colombia che ad accompagnarne politicamente questa svolta epocale. Seppur tra ovvie cautele e diffidando per principio delle soluzioni semplici a problemi complessi, non crediamo di peccare di facile ottimismo nel valutare che mai come in questa circostanza le condizioni oggettive parrebbero pendere a favore di una conclusione positiva. Con una certezza in più: il trattato di pace in Colombia rappresenterebbe non soltanto la conclusione di una stagione di più di mezzo secolo di lutti e tragedie per l’ultima guerriglia del continente, ma la chiusura definitiva della storia politica del Novecento in America latina. Sarebbe, in altri termini, la definitiva consacrazione di una regione del mondo che con l’eccellente crescita economica di questi ultimi dieci anni è consapevole di non può più prescindere dal consolidamento delle istituzioni, dalla democrazia, dallo stato di diritto e dalla pace.
26 settembre 2012