In seguito a una legge approvata dal Congresso nel 1986, l’amministrazione in carica è tenuta a pubblicare un documento in cui enuncia la sua strategia di sicurezza nazionale (NSS, National Security Strategy). Se nei primi anni le NSS hanno avuto cadenza annuale – come previsto peraltro dalla legge –, nel XXI secolo è invalsa l’abitudine di pubblicarne una per ogni mandato presidenziale (Bush Jr nel 2002 e nel 2006; Obama nel 2010 e nel 2015; Trump nel 2017).
A lungo attesa, e posposta a causa della crisi ucraina, la prima NSS di Joe Biden è finalmente disponibile. È, questa NSS, un documento denso e complesso, ma in taluni passaggi abbastanza diretto, lontano da quelli anodini di Obama o di Clinton, e più simile per molti aspetti alla NSS del 2002 di Bush Jr. o a quella del 2017 di Donald Trump. Della prima, sembra riecheggiare il tentativo molto sincretico di intrecciare idealismo e realismo, valori globali e interesse nazionale, che il documento del 2002 sintetizzò con una formula ricorrente secondo la quale compito e obiettivo degli USA doveva essere la creazione di «un equilibrio di potenza a favore della libertà» (a Balance of Power That Favors Freedom). Della seconda, pur non condividendone il tono cupo e finanche distopico, si riprende l’idea che gli USA siano oggi impegnati in una sfida quasi esistenziale, di potenza (per Trump) e anche ideologica (per Biden), con Cina, Russia e – in subordine – Iran.
È questo il primo tratto distintivo della NSS di Biden: la reiterata sottolineatura della natura pericolosamente competitiva dell’ordine internazionale corrente, con un avversario potenzialmente globale, la Cina, e con altri più deboli, ma comunque pericolosi. La parola “competizione” e i suoi derivati compaiono quasi 100 volte nel documento, senza lasciare dubbi al lettore su come vengano declinate le relazioni internazionali oggi a Washington. La Cina, si diceva, è l’avversario primario. Il solo, afferma il documento, che ha «sia l’intenzione di rimodellare l’ordine internazionale sia le capacità economiche, militari, diplomatiche e tecnologiche per farlo».
È una competizione ovviamente di potenza, quella che contrappone Washington a Pechino, e che richiede quindi un rafforzamento e un aggiornamento della panoplia di mezzi a disposizione degli USA, a partire da quelli militari, cui questa NSS dedica diverse pagine. Ma è anche una sfida politico-ideologica, descritta con la tradizionale partizione bideniana tra democrazia e autocrazia. Uno schema binario, questo, che offre sia una bussola per orientarsi nel quadro internazionale sia uno strumento per affrontare questa competizione intrinseca al contesto globale corrente. Ne conseguono tre postulati. Il primo è la superiorità – come modello di sviluppo ma anche come potenza – della democrazia. «Gli autocrati», afferma il documento, cercano di «minare la democrazia ed esportare un modello di governo caratterizzato dalla repressione in patria e dalla coercizione all’estero»; “credono erroneamente che la democrazia sia più debole dell’autocrazia perché non capiscono che il potere di una nazione nasce dal suo popolo». Il secondo postulato, che ribadisce in forma semplificata l’assunto fondamentale della teoria della pace democratica, è che un allargamento della sfera della democrazia nel mondo non solo è congruente con gli interessi degli Stati Uniti, ma è anche funzionale ai loro interessi, perché «il rispetto per la democrazia e il sostegno ai diritti umani promuove la pace, la sicurezza e la prosperità globali». Il terzo postulato – davvero centrale in questa NSS – è che la credibilità sia di questa rivendicazione di superiorità della democrazia sia del suo costituire fondamentale comune denominatore di un ampio fronte guidato dagli USA dipendono in ultimo dalla capacità di revitalizzare la democrazia americana, fronteggiando lacerazioni e difficoltà che ne hanno causato (e ne causano) un’evidente sofferenza. Il documento non nasconde, ed anzi enfatizza, queste sofferenze («Viviamo in un momento di appassionata intensità politica, intensità e fermento politico che a volte lacera il tessuto della nazione», si afferma ad esempio in un passaggio). Enfatizza però come le politiche adottate da questa amministrazione – a partire da quelle economiche di sostegno a programmi di re-industrializzazione – offrano una risposta forte e incisiva. E nel farlo, ripropongono un topos classico dell’eccezionalismo democratico americano: la fiducia nella capacità della nazione di rinascere, reinventarsi e rilanciare il suo progetto e la sua potenza, anche nei momenti di massima difficoltà e crisi. Laddove gli avversari, a dispetto delle apparenze, soffrono di patologie croniche «intrinseche ad autocrazie […] personalistiche», la tradizione degli Stati Uniti rivela la loro capacità «di trasformare le sfide interne ed estere in opportunità per stimolare le riforme e il ringiovanimento del Paese. Questo è uno dei motivi per cui le profezie sul declino americano sono state ripetutamente smentite in passato e perché non è mai stata una buona idea scommettere contro l'America».
Il terzo e ultimo elemento – in aggiunta alla natura competitiva dell’ordine internazionale corrente e alla partizione democrazia vs. autoritarismo – riguarda i rapporti con gli altri attori ovvero la traduzione diplomatica e politica di tutto ciò. Il dopo guerra fredda, afferma iperbolicamente la NSS in apertura, «è definitivamente terminato, e una competizione è in corso tra le principali potenze per dare forma a quel che seguirà». Altri epitaffi, diretti e indiretti, sul post-1991 scandiscono le pagine del documento. Che sono poi epitaffi su una globalizzazione menzionata una sola volta e come parte di un passato che ha sì garantito «grandi benefici» agli USA, ma che è oggi definitivamente archiviata. Ideologia, geopolitica e necessità di revitalizzare la democrazia statunitense sono invece da perseguirsi rilanciando e rafforzando le tante interdipendenze a guida statunitense, a partire ovviamente da quella transatlantica. La risposta alla fine di una globalizzazione spregiudicatamente sfruttata dai competitori di oggi, Cina su tutti, è quindi quella offerta da un modello dove si compensa la ritirata dall’integrazione globale con un approfondimento e un’intensificazione di quelle regionali, sullo spazio atlantico così come su quello Indo-Pacifico. Spazi, questi, dove integrazione politica (la democrazia), economica (gli scambi e gli investimenti) e strategica (le alleanze e le cooperazioni militari) servono appunto per fronteggiare e contenere i grandi avversari odierni.
Ne derivano, come è inevitabile che sia, numerosi cortocircuiti concettuali e prescrittivi, visibili in ognuno dei tre elementi che connotano questa NSS. Su alcuni il documento è silente. Altri, invece, li discute candidamente. È questo il caso della tensione tra la natura globale di alcune delle grandi sfide della contemporaneità, cambiamento climatico su tutti, e le soluzioni regionali (e, di fatto, de-globalizzate) che si propongono. Il dopo guerra fredda è terminato e siamo dentro una nuova competizione di potenza, si afferma. Ma solo poche righe più tardi si rimarca come «mentre questa competizione è in corso, le persone in tutto il mondo stanno lottando per affrontare gli effetti di sfide comuni che attraversano i confini, che si tratti di cambiamenti climatici, insicurezza alimentare, malattie trasmissibili, terrorismo, scarsità di energia o inflazione». La Cina è un avversario assoluto, che usa il suo potere economico come «leva coercitiva», e che si macchia di «abusi, genocidi e crimini contro l’umanità». E però la competizione con Pechino deve essere «responsabile», evitando di usare come leva diplomatica questioni – come appunto quelle ambientali – in cui le due parti preservano una comunanza d’interessi. Ovvero dove la collaborazione tra Cina e Stati Uniti è conditio indispensabile ad un’azione collettiva senza la quale nessuna governance efficace è immaginabile.