L’impressione di trovarsi nel passato, due settimane in ritardo rispetto al proprio Paese d’origine, con la possibilità di poter intervenire per condizionare il corso degli eventi e plasmare il futuro: di poter sfuttare il privilegio di avere sotto ai propri occhi il monito inequivoco della storia recente. La frustrazione di non riuscire a farlo; di urlare inutilmente alla Luna; di confrontarsi con un pubblico al meglio diffidente e disattento, e al peggio ostile e irritato. Sono queste le sensazioni provate da tanti italiani residenti all’estero; in Francia, forse, più che altrove. Osservavamo le stesse identiche dinamiche viste all’opera in Italia: sottovalutazione della minaccia portata dal Coronavirus, indisponibilità a stravolgere i propri stili di vita per farvi fronte, minimizzazione o finanche negazionismo. E sbattevamo regolarmente la testa contro il muro, cercando invano di allertare e sensibilizzare i colleghi, implorandoli di uscire dal loro comodo torpore, di prestare attenzione al caso italiano: a questa “lezione della storia”, semplice, netta e così prossima geograficamente e temporalmente. Chi, come il sottoscritto, lavora in università ha chiesto in più occasioni, e invariabilmente senza successo, di annullare o posticipare la messe di iniziative non indispensabili (che sono, diciamocelo, poi quasi tutte) dei nostri centri di ricerca: seminari, giornate di studio, assemblee e riunioni. E di accelerare la transizione a forme d’insegnamento a distanza già adottate non solo dalle università italiane in mezzo alla bufera, ma anche da tanti atenei nordamericani, tra i quali tutti i nostri principali partner. Niente; nulla di nulla. Al meglio messaggi di solidarietà per l’esule di un Paese in balia di una simile ordalia; al peggio, risposte di sprezzante sufficienza (ancora giovedì scorso un collega millantava un presunto studio dell’Organizzazione mondiale della sanità secondo il quale in Francia la situazione era pienamente sotto controllo e si organizzavano assemblee e incontri conviviali di 70 e più persone per la settimana a venire).
Poi, la realtà nuda e cruda è stata sbattuta in faccia a un Paese incredulo e disorientato. Prima con il discorso – alto, nobile e forte – di Macron. E poi con quello più ruvido del primo ministro Édouard Philippe a un popolo che ancora danzava irresponsabile sull’orlo del precipizio, con le brasserie stipate di giovani (e meno giovani), Gilets jaunes ancora in piazza e le più banali attenzioni, a partire dalla distanza minima tra le persone, platealmente disattese. Quale sia la credibilità di questi messaggi – e di una politica sempre più debole e delegittimata – è difficile dirlo, a maggior ragione se essa stessa continua a dare prova quasi caricaturale d’irresponsabilità, evitando di sospendere elezioni municipali che spostano e mettono in contatto decine di milioni di persone. La Francia sta però entrando pienamente in uno scenario italiano: un’escalation di misure finalizzate a rallentare il più possibile la diffusione del virus a costo di paralizzare il Paese, la sua vita sociale, le sue attività produttive, i suoi mille eventi culturali.
E allora perché i nostri moniti non sono stati ascoltati? Perché sono scivolati sull’acqua senza lasciare segno alcuno? Perché la lezione italiana ha inciso così poco, portando la Francia a scialacquare lo straordinario vantaggio di essere due settimane in ritardo sulla storia (non solo la Francia, va detto; mia moglie lavora nei Paesi Bassi e le dinamiche sono state per molti aspetti identiche)?
In questi giorni, ce lo siamo chiesti in continuazione noi e altri colleghi, italiani e stranieri. Sui gruppi whatsapp creati per l’occasione, negli scambi e-mail, nelle interminabili telefonate scandite invariabilmente da un crescendo di rabbia impotente. La spiegazione più semplice, vera ma parziale, è che dell’Italia in fondo si trattava. Di un Paese e di un ceto dirigente dalla debole credibilità; e di una crisi quindi spiegabile con i facili stereotipi che tanti osservatori stranieri applicano al nostro Paese. Anche nei generosi messaggi di solidarietà e sostegno – e non ne sono affatto mancati in questi giorni – o nelle quotidiane, attente richieste sullo stato di salute dei nostri cari in Italia scorreva, talora sotto traccia talora in modo più esplicito, un certo qual paternalismo. Un senso di compatimento verso un vicino a cui si vuol sì bene, ma che si considera essere esso stesso causa primaria dei suoi mali.
Per quanto consolatoria, e ormai integrale a una narrazione patriottica e neonazionalista che si sta diffondendo con forza in Italia, questa lettura è però incompleta e, se assunta a unico paradigma esplicativo, anche molto fuorviante. Ed è utile quindi azzerare le due settimane di distanza tra Italia e Francia ‒ mettere la diffusione del virus su uno stesso asse temporale ‒ per rendersene conto. Perché annullato questo scarto di tempo, scagionando solo per un momento la Francia dalla colpa grave di avere sperperato tale immenso privilegio, scopriamo che le reazioni sono state del tutto identiche: che tra il popolo della movida dei Navigli e quello che intonava “un’ultima pinta prima di morire” nelle brasserie parigine sabato sera non vi sono in fondo sostanziali differenze. Vi è un malinteso senso della libertà individuale, refrattario ad accettare qualsivoglia limite e costrizione; vi è una nozione dei diritti declinata in termini tutti individuali (e, spesso, non poco edonistici) e l’evidente assenza di qualsivoglia abitudine alla responsabilità collettiva; e vi è la fatica immensa di uscire da una routine nella quale il diritto alla totale mobilità non conosce ostacoli o controlli. Tutto ciò convive contraddittoriamente con la forza persistente del potere immaginifico delle frontiere (e, appunto, degli stereotipi) nazionali. In un contesto europeo e globale sempre più integrato, si continua a credere che una pandemia di questa portata possa essere confinata a Wuhan o in Cina, a Codogno o almeno in Italia. È un immaginario tanto potente quanto disancorato dalla realtà, questo. Folle negli assunti; pericoloso e, come stiamo vedendo, finanche letale nelle conseguenze. Ma è un immaginario con il quale noi italiani di Francia (o di Olanda) ci siamo scontrati e dal quale siamo stati in ultimo sconfitti. E dalla propria quarantena, nostalgica e addolorata, sapere di avere avuto ragione, mille volte ragione, è oggi una consolazione davvero troppo magra.
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