La questione della guerra in Libia ci ricorda che la guerra è la caratteristica centrale delle relazioni internazionali, anche se molti talvolta tendono a dimenticarlo o trascurarlo. Se questa affermazione sembra troppo forte, allora si può dire che la guerra è il momento estremo delle relazioni internazionali, così come la rivoluzione lo è della politica interna. Rivoluzione e guerra hanno prodotto in Libia lo scontro violento che si combatte da ormai cinque anni. La sua origine più prossima è nota: l’opposizione armata libica, sostenuta dall’allineamento di guerra delle potenze occidentali, ha abbattuto il regime politico retto da Gheddafi e, di conseguenza, la struttura di governo dello Stato. Da allora esso non può svolgere neppure la funzione fondamentale di qualsiasi Stato, proteggere la sicurezza dei cittadini nel proprio territorio.
Questi fatti portano a due considerazioni che riguardano il cittadino impegnato nella comprensione della politica estera italiana e nelle delicate decisioni alle quali è chiamata. La prima è di carattere generale: ci sono diverse scelte possibili a chi ritiene propria responsabilità o interesse intervenire nella guerra libica, ma tutte implicano la minaccia o l’uso della forza. Così è in guerra, laddove si perseguono fini politici minacciando la morte – o dandola – a chi si oppone alla propria volontà. Per uscire da questa miserabile condizione occorre trovare un compromesso politico tra le parti. Ciò implica una consapevolezza essenziale: qualsiasi compromesso, anche se ripudia la violenza aperta, anche se liberamente accettato, ha essenzialmente carattere coattivo. È difatti pur sempre un prodotto compreso nella logica della forza. Lo è perché l’aspirazione che porta al compromesso non è motivata da sé medesima, ma dall’esterno, e cioè dall’aspirazione opposta. Da qui il sentimento fondamentale d’ogni compromesso raggiunto: “sarebbe meglio altrimenti”. In guerra, qualsiasi guerra, questo carattere coattivo è all’estremo perché riguarda direttamente e chiaramente la minaccia e l’uso della forza. La Libia non fa eccezione.
Se è così, la pace di Libia si reggerà, prima di tutto, sulla dissuasione nel senso politico-diplomatico: indurre il nemico a desistere dal proposito di combattere, trasformandolo, anche con la minaccia della forza, almeno in oppositore e da lì, chissà, in amico. A quel punto potrà essere con il persuadere, non con il minacciare, il legame primo del dissuadere. La comune particella è appunto “suadere”: indurre con efficaci parole. Indurre a cosa? A trattenere quella violenza sociologicamente specifica esercitata in guerra. Raggiunto quel punto, la diplomazia potrà non solo affiancare bensì sostituire la violenza della guerra. Si sostituirà all’abbattimento violento la ragione discorsiva, base della mutua coesistenza e freno prudenziale al conflitto sempre latente. È giocoforza questo il percorso d’uscita dalla guerra di Libia.
Questo percorso è occluso, però, da una causa esterna che porta alla seconda considerazione. Essa riguarda direttamente le relazioni internazionali e, per quanto concerne il quadrante europeo, il conflitto sulle sfere d’influenza tra Francia, Regno Unito e Italia. La ragione principale della guerra anglo-francese contro la Libia nel 2011 è la stessa che guida ancora oggi la politica di queste due potenze come altre potenze esterne: estendere la propria sfera d’influenza in Libia. È questo un problema fondamentale per ottenere una pace stabile: giungere a un compromesso politico tra le potenze europee sulle sfere d’influenza senza produrre la partizione del Paese. Le sfere d’influenza sono regole operative fondamentali per sostenere l’ordine internazionale e la loro delimitazione, pur complessa, è essenziale. In Libia sembra mancare l’accordo sia sui mezzi per darne definizione condivisa sia, di conseguenza, sulle finalità che sorreggono il tentativo di realizzare la pace.
In effetti, l’esistenza del problema delle sfere d’influenza non stabilisce che le classi dirigenti ne siano consapevoli. Al contrario, essendo regole politiche non formali è difficile valutare quale sia il loro contenuto soprattutto quando le potenze non percepiscono interessi comuni superiori a quelli particolari. Sia come sia, Regno Unito e Francia non sembrano disposti a rinunciare all’affermazione dei propri interessi nella definizione di queste regole e ad essa subordinano la pace. Hanno già dimostrato con la guerra del 2011 di considerare la propria vittoria, quale essa sia, come la finalità immediata del combattimento e la pace come quella ultima. Questo fatto non è una novità e non è per nulla peculiare. Agostino d’Ippona l’aveva già notato nel De Civitate Dei (XIX, 12-13). Chi turba la pace “non vuole che non vi sia pace, ma che sia quale lui la vuole”. Chiarire questa volontà sarebbe un esercizio utile al tentativo di una pace duratura.