I Paesi arabi del Golfo spesso vengono definiti, con una certa vena polemica, col termine “petrol-monarchie”. Allo stesso modo, le ricchezze a loro disposizione, in particolar modo quelle provenienti dai rispettivi fondi sovrani sono chiamate “petroldollari”. Nell’immaginario comune, se si chiede di pensare a questi Paesi il primo scenario che viene in mente è costituito da fiumi di petrolio esportato in tutto il mondo in cambio di altrettanto consistenti fiumi di soldi utili a soddisfare i capricci e le bizze di sceicchi multimiliardari.

Al netto delle classiche fantasie orientalistiche che ancora oggi imperano all’interno dell’opinione pubblica occidentale, va riconosciuto che nel corso dell’ultimo secolo le enormi riserve di petrolio e gas naturale presenti nei territori delle monarchie arabe del Golfo hanno costituito un fattore determinante della loro storia, soprattutto nel bene ma non senza diverse criticità, soprattutto per il futuro.

Le origini del rapporto simbiotico tra idrocarburi e questi Paesi si possono collocare nel 1908, quando i britannici scoprirono giacimenti di petrolio in Medio Oriente. Un anno più tardi, con la nascita della compagnia petrolifera anglo-iraniana (oggi BP), aumentarono le ricerche di ulteriori giacimenti di gas naturale e, soprattutto, petrolio, il quale nei decenni successivi diventò sempre più centrale nell’economia globale in qualità di carburante e per la produzione di materiali plastici. Verso gli anni Trenta del XX secolo, vennero trovati i primi giacimenti in Arabia Saudita, Iraq e Bahrain. Da quel momento in poi, le “sette sorelle” hanno condotto sempre più ricerche alla scoperta di ulteriori pozzi nella zona fino al punto di realizzare come il Golfo Persico e le sue coste attigue costituiscano, di fatto, un enorme giacimento di petrolio e gas naturale, tra i più ricchi dell’intero pianeta.

Ciò nonostante, fino alla fine della Seconda guerra mondiale la gran parte del petrolio estratto proveniva dagli Stati Uniti. Per arrivare agli inizi della rivoluzione petrolifera nel Golfo occorre aspettare il momento in cui Washington, preoccupata di prosciugare precocemente le proprie riserve interne, cominciò a valutare il petrolio in Medio Oriente non solo come un’opportunità economica, ma come vero e proprio asset strategico, spingendo sempre di più all’importazione e, per mezzo delle proprie compagini petrolifere, alla commercializzazione internazionale di petrolio proveniente da quelle zone.

Con il protettorato, il Regno Unito vantava d’altra parte diritti di esclusività commerciale stipulati con le dinastie locali regnanti a partire dal XIX secolo. Per quale ragione rinunciarci proprio in quel momento? Fu proprio la competizione con l’alleato americano per il petrolio e il gas naturale dell’area, a condurre Londra verso la concessione della piena indipendenza. I rapporti di forza tra Stati Uniti e Regno Unito, nel corso della guerra fredda, andarono sempre più a favore dei primi e ciò portò Londra ad assumere una politica sempre più allineata alle esigenze di Washington ai fini della competizione con l’Unione Sovietica. La crisi di Suez del 1956 costituì un’avvisaglia del fatto che, dovendo scegliere tra rinunciare a ulteriori velleità imperiali e rinunciare al partner americano, il Regno Unito avrebbe sempre optato per la prima opzione. Così accadde anche per i Paesi arabi del Golfo, non appena il vantaggio britannico sull’industria estrattiva locale si dimostrò così risibile da non giustificare il protrarsi degli investimenti per il mantenimento del protettorato.

Con l’indipendenza iniziò per i Paesi arabi del Golfo una poderosa crescita economica, che li ha portati a divenire, nel giro di alcuni decenni, da periferia dell’Impero britannico a poli d’attrazione a livello globale. Petrolio e gas naturale sono stati senza dubbio il carburante che ha consentito una tale ascesa, l’estrazione e la vendita di questi prodotti sul mercato hanno costituito la totalità delle loro economie. Ciò nonostante, altre zone nel mondo possono vantare altrettante ricchezze naturali senza però esser riuscite ad avvicinarsi al loro successo (si pensi alla Libia). Come si può intuire, non è solo la presenza di grandi risorse di idrocarburi ad aver garantito la prosperità dei cittadini di questi Paesi: un ruolo altrettanto centrale è stato giocato dalla modalità con cui i governanti locali, quelle stesse dinastie che amministravano i territori per conto di Londra, hanno gestito l’arrivo crescente di petroldollari. Per riuscirci, questi hanno deciso innanzitutto di non seguire alcuna tentazione di unificazione sul modello malese, restando entità piccole e con popolazioni ridotte, ricacciando le tentazioni panarabiste che in quegli anni dominavano il resto del mondo arabo.

In secondo luogo, per garantire la stabilità interna, questi Paesi hanno siglato con i loro cittadini un patto sociale chiaro nella sua semplicità quanto efficace nella sua attuazione: prosperità per ogni cittadino, garantita dal gettito economico derivante dall’estrazione di petrolio e gas naturale, in cambio di obbedienza al modello autocratico. Quest’ultimo avrebbe dunque garantito la costanza del flusso di ricchezza controllando il mercato internazionale degli idrocarburi in cartello con gli altri Paesi produttori attraverso l’OPEC. Per comprendere per quale ragione, con la parziale eccezione del Bahrain, scosso da differenze religiose tra maggioranza della popolazione e dinastia regnante, questi Paesi negli anni della guerra fredda e oltre non abbiano patito l’endemica instabilità politica degli altri Paesi arabi è sufficiente guardare quanto la barra del PIL pro capite sia schizzata verso l’alto nel corso di un paio di decenni, portando i cittadini di tali Paesi a un tenore di vita tra i più alti al mondo. Un vero e proprio “welfare petrolifero”, che ha garantito stabilità, ma che ora impone a questi Paesi di mantenere un elevato tenore di vita anche in un futuro post petrolifero.

È opinione comune che tali economie siano particolarmente fragili in quanto legate alle fluttuazioni dei prezzi degli idrocarburi sul mercato. Eppure, in cinquant’anni d’indipendenza, i capricci dei mercati internazionali non sembrano aver arrestato l’ascesa economica dei Paesi arabi del Golfo. A preoccupare i governanti di questi Paesi è, piuttosto, il medio e lungo termine. Se un tempo il timore principale poteva essere l’esaurimento delle risorse interne, oggi lo scenario più probabile è che petrolio e gas naturale diventino risorse sempre più obsolete e ai margini dell’economia globale, processo sempre più spinto dalla lotta al cambiamento climatico causato dall’inquinamento.

Il processo di riconversione dell’economia e delle società è in corso ormai da trent’anni e non per caso è coinciso con un poderoso boom edilizio che ha interessato le città, come ad esempio Dubai; per accorgersi della portata del cambiamento è sufficiente guardare una foto della città nel 1989 e confrontarla con una odierna. La creazione, sostanzialmente da zero, di grandi metropoli internazionali è stata la prima mossa adottata da questi Paesi in quanto dall’espansione urbana hanno avuto origine tutta una serie di fronti d’intervento che hanno reso queste nuove città dei punti d’attrazione sempre più importanti sui campi più disparati, dalla finanza allo sport. Tale processo è stato possibile, come prevedibile, grazie ai fondi provenienti dall’esportazione di idrocarburi.

La seconda fase, pertanto, riportata nei vari documenti Vision 2030 redatti dagli stessi governi dei Paesi arabi del Golfo, consiste nell’affrancarsi definitivamente dalla dipendenza economica da petrolio e gas naturale, ancora oggi comparti preponderanti nelle economie di questi Paesi, nonostante gli investimenti e gli sforzi profusi. Per riuscirci, la speranza è che la creazione di nuovi ambiti dell’economia iniziati nella fase precedente cominci a dare i frutti sperati, trasformando questi Paesi da petrol-monarchie in moderni poli urbani globali sul modello di Singapore.

Si tratta di una scommessa che questi Paesi possono permettersi di tentare una volta sola e la posta in palio è l’intero processo di formazione della nazione. Il prezzo del fallimento sarebbe inevitabilmente la rottura del patto sociale attuatosi con il welfare petrolifero, con conseguenze esplosive le cui possibili declinazioni sono intuibili guardando alla Libia o alla Siria. Una vera e propria corsa contro il tempo e contro la volontà globale di liberarsi dalla dipendenza energetica verso gli idrocarburi, ieri e oggi delizia ma domani possibile croce per le monarchie arabe del Golfo.

Immagine: Vista aerea del terminal di stoccaggio del petrolio a Dubai, Emirati Arabi Uniti (29 dicembre 2019). Crediti: Novikov Aleksey / Shutterstock.com

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