L’amministrazione di Donald Trump sta prendendo forma. Sono trascorsi oramai venti giorni da quella data destinata comunque a entrare nella storia, quell’8 novembre in cui – sorprendendo gran parte degli analisti – l’America si è affidata al tycoon newyorkese, premiato dal meccanismo del collegio elettorale che gli consentirà di diventare presidente degli Stati Uniti anche se indietro rispetto a Hillary Clinton nel voto popolare. Ora si entra nel vivo, il transition team di Trump – che si insedierà alla Casa Bianca nel gennaio 2017 – è al lavoro per plasmare la nuova presidenza dopo gli 8 anni di Barack Obama, e le prime proposte di nomina dei membri della squadra trumpiana che dovrà rendere l’America ‘di nuovo grande’ sono già state formulate.

‘Prometto ai cittadini che sarò il presidente di tutti gli americani’ aveva assicurato Trump nel suo primo discorso a New York subito dopo l’elezione, rivolgendosi anche a chi non lo aveva sostenuto per tendere la mano e chiedere ‘il loro aiuto per lavorare insieme e unire il nostro Paese’: dunque, un Trump assai più pacato rispetto a quello conosciuto durante la campagna elettorale, consapevole del suo nuovo ruolo e per questo più ‘presidenziale’ nei toni e nei contenuti, un Trump che davanti alla stampa - al termine del primo incontro alla Casa Bianca con Obama per gestire la transizione - aveva definito quello che presto diventerà il suo predecessore ‘a very good man’, ossia un’ottima persona di cui vorrà ascoltare i consigli, una descrizione lontana anni luce da quella dei mesi della propaganda.

Dopo l’annuncio delle prime nomine tuttavia, le nubi sono tornate ad addensarsi sul presidente eletto, e le critiche sono state dure ed esplicite. Assai controversa è stata in primo luogo la scelta di Stephen Bannon come chief strategist e senior counselor: alla guida del sito d’informazione Breitbart – diventato uno dei principali aggregatori delle posizioni della destra alternativa (alt-right) in cui sono confluiti orientamenti nazionalisti, misogini, omofobi e antisemiti – Bannon è stato tra le eminenze grigie della campagna presidenziale di Trump, e il suo nome era circolato anche per il ruolo di chief of staff poi assegnato a Reince Priebus, vicino allo speaker della Camera Paul Ryan. Citato in un articolo pubblicato su Mother Jones nel mese di agosto, Bannon ha negato che la alt-right si attesti su posizioni identitariamente razziste, ma sarebbe piuttosto da ricondurre nell’ambito di un nazionalismo non necessariamente suprematista: quanto poi al fatto che certi messaggi possano risultare attrattivi per chi si professa antisemita oppure omofobo – osservava Bannon – non è da escludersi, ma sotto il profilo ideologico non sarebbe questo il nocciolo duro della destra alternativa.

Le perplessità e le manifestazioni di dissenso sono comunque emerse in maniera netta: il Southern Poverty Law Center, che monitora le attività dei gruppi estremisti, si è ad esempio espresso in modo inequivocabile contro la nomina, dichiarando che chi ha guidato la piattaforma di riferimento della alt-right non può trovare posto alla Casa Bianca. Secondo quanto riportato dal sito di Politico, anche 169 deputati democratici del Congresso si sarebbero mobilitati, invitando il presidente eletto Trump a ripensare alla sua scelta ed evidenziando come la nomina di Bannon sia stata accolta con grande soddisfazione dagli ambienti del suprematismo bianco.

Per la carica di procuratore generale, è stato indicato il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, noto per le sue rigide posizioni in materia di immigrazione e tra i primi sostenitori della corsa presidenziale di Trump. Anche su di lui pendono tuttavia accuse di razzismo: nel 1986, la sua nomina a giudice federale fu infatti bloccata a seguito di alcune sue discutibili dichiarazioni sull’Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore e l’Unione americana per le libertà civili, considerate ‘anti-americane’ e ‘ispirate al comunismo’; inoltre Sessions avrebbe definito ‘una disgrazia per la sua razza’ un avvocato bianco che difendeva cittadini afroamericani. Già allora, Sessions negò con forza di essere razzista, dichiarando di non essere la persona che i suoi detrattori avevano descritto e di aver anzi sostenuto le attività per la promozione e la tutela dei diritti civili nel suo Stato.

Il National security advisor di Trump sarà invece il generale Michael Flynn, che ha definito l’islamismo ‘un cancro aggressivo nel corpo di 1,7 miliardi di persone’ e sostenuto che la sharia starebbe prendendo piede negli Stati Uniti. Flynn è stato una figura chiave nella campagna presidenziale di Trump come suo principale consigliere in materia di sicurezza, e lo stesso presidente eletto si è detto ‘onorato’ di averlo in futuro al suo fianco per ‘sconfiggere il terrorismo di matrice islamica, affrontare le grandi sfide geopolitiche e garantire la sicurezza degli americani nel territorio degli Stati Uniti e all’estero’.

Per guidare la CIA, il nome scelto è invece quello di Mike Pompeo, ricordato per la sua durezza e tenacia contro Hillary Clinton nel comitato della Camera dei rappresentanti sugli attacchi a Bengasi nel 2012, durante i quali perse la vita – tra gli altri – l’ambasciatore Christopher Stevens.

Dalle prime nomine dunque, un apparente trionfo di quell’America dura, bianca e di sesso maschile che ha rappresentato il bacino elettorale di riferimento per Donald Trump; una squadra che però risulta in stridente contrasto con quel messaggio inclusivo rivolto alla nazione subito dopo l’elezione. A tale lettura si è tuttavia opposto l’entourage del presidente eletto, che non ha mancato di sottolineare come Trump stia vagliando rose molto ampie di nomi per le posizioni chiave all’interno dell’amministrazione. In tal senso, una maggiore apertura si è evidentemente registrata con alcune scelte successive: come segretario all’Istruzione, il nome proposto è infatti quello di una donna, Betsy DeVos, che peraltro era stata apertamente critica nei confronti di Trump durante la campagna elettorale; mentre per il ruolo di ambasciatore presso le Nazioni Unite, il presidente eletto ha annunciato l’intenzione di indicare la governatrice della Carolina del Sud Nikki Haley, che alle primarie aveva espresso il suo sostegno per il senatore della Florida Marco Rubio.

Per la CNN, Tal Kopan ha provato a tracciare un primo bilancio: finora, le scelte sembrano aver premiato figure che hanno mostrato sin dall’inizio la loro vicinanza al progetto lanciato dal tycoon con la sua candidatura, come dimostrano le scelte di Sessions e Flynn; ma il presidente eletto ha rivelato in un secondo momento di essere anche capace di una certa abilità politica, scegliendo personalità che pure non lo avevano sostenuto nella corsa alla nomination repubblicana. Da questo punto di vista, accanto all’indicazione di Nikki Haley, potrebbe assumere particolare significato l’eventuale nomina di Mitt Romney come segretario di Stato, anche nell’ottica di una mano tesa verso l’establishment repubblicano.

Trump ha poi annunciato in un video le sue priorità per i primi 100 giorni di amministrazione: tra i punti centrali, il ritiro degli USA dalla Trans-Pacific Partnership, la cancellazione delle restrizioni sulla produzione di energia che sono costate posti di lavoro, i tagli sulla regolazione delle attività di business, il rafforzamento delle misure in materia di cybersicurezza, le indagini sui presunti abusi nel programma dei visti e gli interventi in materia di lobbying. Per ora, niente muro con il Messico e niente smantellamento dell’Obamacare. E sull’accordo di Parigi sul clima, il presidente eletto ha dichiarato di essere assolutamente ‘aperto’ a diverse possibili soluzioni.

Perché la campagna elettorale serve ad infiammare i propri sostenitori e a guadagnare consensi, ma nelle stanze dei bottoni si respira un’altra aria.