L’immagine di Jamal Khashoggi, il giornalista dissidente ucciso presso il consolato saudita di Istanbul lo scorso ottobre, sulla copertina di Time quale personaggio dell’anno – lui e altri giornalisti in pericolo, quali «guardiani della verità» – non fa altro che aumentare l’imbarazzo, ma business is business, e allora Juventus e Milan, il prossimo 16 gennaio, giocheranno regolarmente la sfida valida per l’assegnazione della Supercoppa italiana a Gedda, in Arabia Saudita, al cospetto del Gotha del governo saudita che, verosimilmente, siederà nella tribuna autorità dello Sports City Stadium dedicato a re Abd Allah, morto nel 2015. La Lega di Serie A ha siglato con la General Sports Authority, l’ente governativo responsabile per lo sport nel regno, un lucrativo contratto per l’esportazione nel Paese di tre edizioni dell’evento, per una cifra che supera i 20 milioni di euro e così, sebbene da più parti piovano critiche e inviti a tornare sui propri passi nei confronti della Lega e dei club, la partita si disputerà, con tutti i festeggiamenti del caso da parte di chi, infine, alzerà il trofeo. Così come, al di là delle contestazioni, domenica 16 dicembre sul circuito di Ad Diriyah a nord di Riyad si è corso il primo E-prix della nuova stagione della Formula E, organizzato dalla FIA (Fédération Internationale de l’Automobile), o come, fra ottobre a novembre, a Gedda e Riyad si sono svolte rispettivamente l’amichevole internazionale calcistica fra Brasile e Argentina e il Crown Jewel, manifestazione che ha incoronato il nuovo campione universale di wrestling WWE. Strategia chiara e tutt’altro che nuova, ma sempre attuale: migliorare l’immagine proiettata a livello globale attraverso lo sport – e la capacità di ospitarne eventi di portata internazionale – a dispetto di una situazione piuttosto delicata, in termini politici e diplomatici.
Del resto, la scorsa estate avevano fatto il giro del mondo le immagini di un rassegnato principe Mohammad bin Salman allo stadio di Mosca, seduto accanto ad un compiaciuto Vladimir Putin, durante la pesante sconfitta della nazionale dell’Arabia Saudita (5-0) nel corso della gara inaugurale dei Mondiali contro i padroni di casa della Russia, e in fondo la sua acquiescenza in quel contesto era servita ad umanizzarne il profilo di fronte a decine di milioni di telespettatori, magari poco avvezzi alla politica, che in quel momento riconoscevano in lui null’altro che un tifoso sufficientemente abbacchiato. Allo stesso modo, l’informale “cinque” scambiato ancora con Putin all’ultimo G20 di Buenos Aires (a prescindere dalla stretta collaborazione con la Russia nella partita del petrolio, dopo il ridimensionamento dell’OPEC) ha buon gioco nel ricollegarsi, nell’immaginario collettivo, a quell’episodio, a sottolineare la figura di un leader giovane – ha 33 anni – il cui obiettivo è quello di porsi quale riformista e innovatore. Una maschera rispetto alle restrizioni al dissenso e alla libertà di espressione che ancora vigono in una monarchia assoluta la quale, nel World Press Index 2018 di Reporters sans frontiers, è collocata alla posizione numero 169 su 180 nazioni censite, in discesa anno dopo anno, e che il caso Khashoggi non fa che peggiorare.
Vision 2030, il programma di trasformazione nazionale presentato nel 2016, punta del resto molto sullo sport e sul suo potenziale propagandistico, tanto nella pratica quanto nella possibilità di organizzare circenses sempre più rilevanti, e il ruolo della General Sports Authority (GSA) è centrale: il presidente della GSA è infatti Turki Al-Sheikh, già guardia del corpo del principe e suo braccio destro. È il ministro dello sport saudita, uno dei motori della strategia di una propaganda sportiva che, dall’altro lato, è mirata anche a contrastare la posizione di privilegio che, sul medesimo campo, negli anni è riuscito a costruirsi il Qatar, i cui critici rapporti diplomatici con l’Arabia Saudita – non ultimo il recente abbandono dell’OPEC da parte di Doha – non sono un mistero. Il Qatar è notoriamente riuscito, fra gli altri, a garantirsi i Mondiali di calcio del 2022, può contare sulla fondamentale presenza del network BeIn Sports per quanto concerne i diritti televisivi delle principali manifestazioni internazionali, ed è in questo senso che va letto il cospicuo appoggio economico (25 miliardi di dollari per dodici anni) che il fondo sovrano saudita aveva garantito al conglomerato giapponese guidato da SoftBank per il piano di due nuove competizioni calcistiche, Global Nations League e Club World Cup, presentate al presidente della FIFA, Gianni Infantino, e che avevano trovato un netto muro da parte della UEFA.
Imbarazzo, anche qui. Quello dal quale si sono sfilati Novak Djokovic e Rafa Nadal, che il 22 dicembre si sarebbero dovuti sfidare a Gedda, esibizione saltata a causa del recente infortunio al ginocchio del campione spagnolo. Infortunio vero, ma che probabilmente è giunto nel momento migliore per sollevare i due (e i rispettivi staff) da una sfida che ha l’unica ragione di essere in un chiaro ritorno economico, ma che ha prestato il fianco ad una schiera di distinguo sull’opportunità politica della partecipazione. Quello che bene o male rappresenterà anche la gara di Supercoppa italiana di gennaio, ma la più importante Lega calcistica nostrana a questi aspetti appare ormai vaccinata, e i precedenti in Libia e Qatar, in fondo, confermano la sensazione.