Il referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno, fortemente voluto dal presidente Masoud Barzani, si è risolto con una chiara vittoria del sì, che ha riportato quasi il 93% dei voti. Più di 3.300.00 dei circa 4.600.000 aventi diritto si sono recati alle urne, per una percentuale di votanti che si avvicina al 73%, pur con significative differenze tra le varie aree popolate dai Curdi. Particolarmente significativo il risultato di Kirkuk, area la cui sovranità è contestata, dove i sì hanno raggiunto quasi l’80%.

Questi risultati rafforzano notevolmente la posizione di Masoud Barzani e del Partito Democratico del Kurdistan (PDK), gettando al contempo sul complicato tavolo mediorientale la questione dell’indipendenza del Kurdistan, promessa dalle grandi potenze dell’epoca nel trattato di Sèvres del 1920 e prontamente rimangiata a Losanna nel 1923, quando le aree curde dell’Impero ottomano furono divise tra Turchia, Iraq e Siria. L’impatto internazionale del referendum è potenzialmente devastante, tale da destabilizzare l’intera regione e le maggiori potenze regionali, dato che minoranze curde sono presenti in Turchia, in Iran, in Siria e in Iraq, ma anche nel Caucaso, seppure con numeri più esegui. Occorre, però, ricordare che il referendum per il quale si è votato lunedì 25 settembre riguarda solo le aree del Kurdistan iracheno e i territori iracheni rivendicati dal Kurdish Regional Government (KRG) di Arbil.

La reazione internazionale è ancora da decifrare in tutte le sue sfumature. Sicuramente contraria la Repubblica islamica d’Iran, che ancora non ha dimenticato la nascita su spinta sovietica della Repubblica curda, proclamata da Qazi Muhammad a Mahabad nel 1946, nella quale il padre dell’attuale presidente curdo, Mustafà Barzani, ebbe un ruolo di primo piano. A questo si aggiunge la diffidenza già dell’imam Khomeini nei confronti dei movimenti separatisti, che a più riprese hanno messo in pericolo la pace delle regioni occidentali iraniane e il ruolo di elementi curdi radicalizzati negli attentati che hanno colpito il cuore della nazione prima dell’estate. A differenza di altri Stati della regione, la Repubblica islamica, specie con i presidenti Khatami e Rohani, ha tentato di integrare la popolazione curda, in questo agevolata dalla prossimità culturale – il curdo, ricordiamolo, è una lingua iranica prossima al persiano – se non dall’identità religiosa. In termini di equilibri interni al Kurdistan iracheno, il risultato del referendum indebolisce la posizione della Patriotic Union of Kurdistan (PUK) di Jalal Talabani, tradizionalmente più vicino all’Iran.

Contraria, almeno in apparenza, la Turchia, che vuole evitare ogni possibile contagio nella sua area sud-orientale, teatro d’azione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) di Abdullah Öcalan, leader curdo che tentò di ottenere lo status di rifugiato politico in Italia, prima di essere catturato dalle forze speciali turche. Sorprende, però, che Barzani abbia deciso di andare al referendum senza essersi prima consultato con Recep Tayyip Erdoğan e i suoi uomini. In fondo, la sopravvivenza del Kurdistan iracheno è nelle mani dell’autoritario presidente turco, che, chiudendo frontiere ed esportazioni di petrolio, potrebbe ridurre Arbil alla fame. Oltretutto, non possiamo dimenticare che nel complesso scacchiere mediorientale il PDK è sempre stato alleato della Turchia, così come l’altro partito storico del Kurdistan iracheno, il PUK di Jalal Talabani, è piuttosto vicino agli interessi iraniani. In un momento di tale complessità si sente ancor più la mancanza del carismatico fondatore di Gorran, Nawshirwan Mustafa, il cui partito nacque da una costola del PUK.

Chiaramente contrario il governo di Baghdad, che già ha dichiarato che non terrà in alcun conto quanto successo in Kurdistan. Il no secco all’indipendenza della regione curda è forse l’unico tema in grado di unire le diverse anime del governo centrale, da al-Maliki a Muqtada al-Sadr, da al-Abadi ad al-Hakim. L’attuale governo, dominato dai partiti sciiti che rappresentano la grande maggioranza degli elettori iracheni, si oppone frontalmente a ogni ipotesi di indipendenza, richiedendo al tempo stesso ai Curdi di liberare le aree da loro controllate, ma non assegnate ufficialmente alla regione. Tra tutte più spinosa è l’assegnazione di Kirkuk, che molti Curdi considerano la capitale in pectore del Kurdistan iracheno, città posta al centro di una regione ricca di petrolio. Tiepide le reazioni internazionali. Con l’eccezione di Israele, che si è subito detto pronto a riconoscere l’eventuale indipendenza, tutti gli altri grandi attori hanno condannato il referendum, senza però precludersi altre vie.

In questo quadro è improbabile che un attento e abile politico quale è certamente Masoud Barzani decida di percorrere sino in fondo la strada dell’indipendenza. Il presidente del Kurdistan iracheno sa fin troppo bene che si tratterebbe di una mossa che lo porterebbe dritto alla rottura con la Turchia di Erdoğan, saldando al contempo l’asse tra questi e la Guida suprema iraniana, ayatollah Ali Khamenei, entrambi interessati a mantenere lo status quo. Più probabile che Barzani usi la sua indiscutibile vittoria sul fronte interno, chiedendo l’annessione stabile di Kirkuk e delle altre aree a maggioranza curda e ridiscutendo autonomia regionale e distribuzione dei proventi del petrolio con Baghdad. Certamente cercherà di incassare i notevoli crediti maturati nella lotta contro lo Stato islamico, Daesh, nella quale i Peshmerga si sono distinti per valore e sacrificio, non potendo però dimenticare i tanti voltafaccia delle grandi potenze, che spesso hanno illuso i Curdi, tradendo poi i loro sogni d’indipendenza. Occorre trovare una via mediana, in grado di essere accettabile per tutti, non dimenticando che quanto deciso oggi in Iraq potrà valere un domani in Siria, dove la regione curda, Rojava, è oggi nei fatti autonoma. Non dando alcun ascolto alle richieste del popolo curdo si rischia di spingere alcune frange verso l’estremismo e il fanatismo religioso, i cui nefasti effetti si sono già visti nella partecipazione di elementi radicalizzati curdi agli attentati che hanno insanguinato la capitale iraniana nello scorso giugno. La sfida che attende oggi la comunità internazionale è di trovare il giusto equilibrio tra le aspirazioni del popolo curdo, che chiede di poter mantenere cultura e identità, e le necessità della politica internazionale che escludono la possibilità di ridisegnare i confini in Medio Oriente, pena un prezzo di sangue che nessuno può oggi desiderare.

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