Il viaggio di Biden in Europa porta alla luce quella che è una svolta nella politica estera americana.

Vediamo i principali punti di questo cambiamento.

Dopo anni di presa d’atto, a livello di percezione internazionale, della fine dell’egemonia degli Stati Uniti nella politica internazionale, di Paese cardine dell’ordine mondiale, l’amministrazione americana ha deciso di riaffermare questa capacità di influenza con forme e metodi che richiamano alcuni momenti del secondo Novecento.

Lasciandosi alle spalle i presupposti ideologici che affidavano al modello liberale fondato sull’economia di mercato e la liberaldemocrazia il compito di “esportare” la democrazia nel mondo, l’amministrazione americana ha deciso di declinare in termini nuovi la sua strategia. A renderlo esplicito sono le parole del presidente Biden in visita alle forze militari americane a Rzeszów, in Polonia, un centinaio di chilometri dal confine con l’Ucraina.

In gioco, dice Biden, non c’è solo la libertà dell’Ucraina, ma il «nostro concetto di democrazia, la sopravvivenza della democrazia nel mondo». E ha continuato: «Siamo nel mezzo di una battaglia tra democrazie e autocrazie» e, nel prossimo futuro, «all’opposizione tra i Paesi liberi e quelli autarchici». Ha poi concluso: «questo concetto di democrazia non potrà fare a meno del sostegno della Nato».

La scelta è molto differente dall’‘America first’ di Trump che rinunciava alla leadership internazionale degli Stati Uniti, ripiegando la politica americana su sé stessa, favorendone il disimpegno dal multilateralismo. Chiari esempi di quelle scelte erano stati i ritiri da diversi e importanti accordi e organizzazioni internazionali come l’accordo di Parigi sul clima, l’Organizzazione mondiale della sanità, l’accordo sul nucleare con l’Iran, la TPP (Trans-Pacific Partnership), l’UNESCO.

Il cambiamento nella politica di Biden si era visto sin dalle prime scelte della sua amministrazione e anche una decisione altrimenti incomprensibile come quella di abbandonare l’Afghanistan diventa più comprensibile se pensiamo che non è quello il tassello dello scacchiere internazionale dove, secondo Biden, si giocheranno le partite principali. I luoghi più sensibili della nuova politica estera statunitense saranno da un lato i confini dell’ex Unione Sovietica ‒ per fermare le mire espansionistiche di Putin – e dall’altro il Mar Cinese Meridionale.

Quest’ultima area è particolarmente rilevante rispetto alle scelte di geopolitica di Biden e rispetto a quello che risulta essere il suo principale contendente: la Cina, il Paese che potrebbe divenire nei prossimi anni la più grande potenza economica del mondo, l’unico in grado di competere con gli Stati Uniti per il primato tecnologico.

Il progetto della Nuova Via della Seta ‒ spiega lo staff di Biden dai primi giorni dell’insediamento ‒, non è soltanto «un progetto di interconnessione fisica fra oriente e occidente, ma un programma di cooperazione politica ed economica, e quindi anche di influenza internazionale». Le scelte di «attenzione politica ed economica» nei confronti di quel Paese da parte degli Stati Uniti e dell’Europa ‒ con un cambio di strategia repentino, non solo sono necessarie, ma sono parte di una strategia di «opposizione della democrazia contro il totalitarismo, una decisa difesa dei diritti umani contro i regimi che impediscono la libertà di espressione». Di fronte a queste recenti prese di posizione il “gigante cinese” ‒ nel rispetto della sua storia e della sua tradizione – ha per ora reagito scegliendo di chiudersi in sé stesso, rimanendo osservatore silenzioso delle scelte internazionali.

La rilettura che Biden fa delle relazioni internazionali tra Occidente e Oriente si confronta con la decisione sciagurata e criminale di Putin di invadere l’Ucraina, uccidendo militari e civili, donne, uomini e bambini, distruggendo intere città.

Di fronte a questa scelta fatta da Putin, segno dell’incapacità di sviluppare un confronto dialettico e democratico all’interno del Paese come verso l’esterno, gli Stati Uniti devono assumere, nelle parole di Biden, la responsabilità di difesa della democrazia del mondo occidentale.

In questa prospettiva quella che dovrebbe avere la forza politica di divenire il quarto protagonista nello scenario geopolitico, in grado di indicare una sua lettura del mondo e delle relazioni internazionali, è l’Europa, con la capacità di indicare una soluzione ai problemi rimasti irrisolti dopo la caduta del muro di Berlino.

Una leadership europea capace di fare propri gli insegnamenti di quei leader degli Stati europei ‒ da Brandt a Moro, da Mitterrand a Kohl, da DelorsPalme, da Prodi a Merkel ‒ che avevano definito il percorso di costruzione europea attraverso una scelta di collocazione internazionale rispettosa dell’Alleanza atlantica, ma con sufficiente spirito critico, e che mostri di voler definire una sua idea di democrazia, di indirizzare le grandi sfide tecnologiche del XXI secolo e non subirle, di disegnare una crescita economica nel rispetto delle priorità ambientali e della necessità di garantire le forme di eguaglianza e di coesione sociale.

Scelte che permettano di disegnare un equilibrio basato sulla libertà, sul dialogo e sul valore di cooperazione in grado di garantire la pace, per costruire un multilateralismo rispettoso delle diversità storiche e culturali, nel quale nessuno dovrà poter imporre in forme violente e autoritarie il proprio punto di vista.

Scelte che, dobbiamo dirlo con chiarezza, si possono affermare nell’evoluzione delle nostre storie democratiche e non nella difesa ingiustificabile di regimi autoritari.

Immagine: Joe Biden al vertice straordinario della NATO, Bruxelles, Belgio (24 marzo 2022). Crediti: Gints Ivuskans / Shutterstock.com

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