Come ampiamente prevedibile l’accordo che Theresa May sta per chiudere con l’Unione Europea è stato accolto in maniera turbolenta nel suo Paese. Mentre il primo ministro annunciava alla nazione che il 25 novembre si sarebbe riunito un Consiglio europeo straordinario per approvare (da parte europea) la bozza di accordo chiusa la settimana scorsa, il suo governo perdeva svariati ministri – a partire proprio dal ministro per la Brexit Dominic Raab, il secondo a dimettersi dall’incarico in pochi mesi – e, virtualmente, la maggioranza in Parlamento.

Infatti, appena è stato annunciato il testo dell’accordo vi è stato l’immediato annuncio della contrarietà del DUP (Democratic Unionist Party), partito unionista nord-irlandese fondamentale per la tenuta del governo in Parlamento dove – occorre ricordarlo – i Tories non hanno la maggioranza. Il DUP si è detto non soddisfatto di quanto previsto dall’accordo in termini di sicurezza per il futuro del Nord Irlanda e, soprattutto, si è sentito poco coinvolto nelle trattative. Inoltre tutta l’area dei “Brexiteers” del partito ha annunciato la sua assoluta contrarietà all’accordo trattato dal primo ministro. Le ragioni sono le stesse, se possibile ancora più negative, per cui Boris Johnson e soci erano contrari all’accordo di Chequers: l’accordo della May è una “Brexit in the name only” e cioè una finta Brexit. I legami con l’Unione, dicono, rimangono troppo forti. Queste defezioni da parte di molti parlamentari conservatori, sommate a quelle del DUP, fanno pensare che il Parlamento boccerà l’accordo. Un assaggio di questo nuovo assetto parlamentare lo abbiamo già avuto in alcune schermaglie parlamentari in occasione dei voti su alcuni emendamenti alla legge di bilancio: in seguito all’annuncio dell’astensione da parte del DUP, il governo ha preferito accettare gli emendamenti dell’opposizione perché era certo che sarebbe stato sconfitto da un voto parlamentare.

Non esattamente un precedente confortante per la May che si appresta a portare a Westminster l’accordo sul quale ha investito praticamente tutto il suo capitale politico. La leader conservatrice, però, ancora una volta ha mostrato una tempra impressionante, difendendo a spada tratta il suo accordo sia in Parlamento che in televisione, dichiarando fermamente che questo accordo rispetta il mandato popolare del referendum dando risposta a tutte le richieste fatte dall’elettorato con quel voto: fine della libera circolazione, controllo giudiziario esclusivo dei tribunali inglesi e pieno controllo delle proprie finanze.

Di tutt’altro avviso, ovviamente, è il leader del Labour Jeremy Corbyn che ha definito questa intesa un monumento ai fallimenti del governo, che non ha mantenuto nessuna delle promesse fatte – dice Corbyn – e ha chiuso un accordo molto generico che lascerebbe quasi tutti i nodi da sciogliere, con in più dei meccanismi automatici in caso di mancati accordi futuri che porterebbero il Regno Unito a stare in un limbo: né fuori né dentro l’Unione. A ben guardare, però, certamente la cosa che più preoccupa il Labour è che l’accordo del governo prevede il mantenimento di alcune regole europee in tema di divieto ad aiuti pubblici alle aziende e contro le nazionalizzazioni, due punti chiave del programma di governo del Labour. Non è dunque un caso che il Labour chieda con forza nuove elezioni per poter eleggere un governo che abbia la forza di trattare un accordo migliore. Corbyn sa, infatti, che se dovesse passare l’accordo, anche andando al governo avrebbe le mani legate su molti temi cari alla leadership laburista. Una linea, questa di nuove elezioni come prima opzione (e non la richiesta di nuovo voto popolare sulla Brexit), approvata alla conference annuale laburista a settembre.

In ogni caso ci sono decine di interrogativi che devono ancora essere risolti, a partire innanzitutto dal prossimo Consiglio europeo: l’accordo infatti è ancora una bozza ed è necessario che venga votato dal 72% dei ventisette stati membri che rappresentino il 65% della popolazione europea. Dunque un voto per nulla scontato, specie se si considera che ci sono questioni spinose sul tavolo: ovviamente quella del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord, ma anche i rapporti con la Spagna per quanto riguarda Gibilterra solo per citare i più macroscopici. La May passerà le ore che la separano dal Consiglio europeo a trattare ininterrottamente con i suoi omologhi europei nella speranza di strappare qualche altra concessione e, soprattutto, di non doverne fare alcuna e portare, finalmente, l’accordo al voto in Parlamento. Si parla addirittura del mese di gennaio per il voto finale. Un tempo, alla velocità con cui cambiano le cose in queste ore a Londra, che pare lontanissimo per poter fare una qualunque previsione.

Ma d’altronde il primo ministro britannico dall’8 giugno 2017, quando perse la maggioranza in Parlamento in occasione delle elezioni anticipate, cammina su di un filo e sopra un burrone. È più di un anno che tutti sostengono che cadrà da un momento all’altro, ma la May invece rimane imperterrita a Downing Street: vedremo se riuscirà a resistere anche questa volta.

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