La visita in Italia di Xi Jinping, la prima visita di Stato del presidente della Repubblica Popolare Cinese (RPC) nel nostro Paese, ma di fatto la seconda se si considera lo ‘scalo tecnico’ effettuato in Sardegna nel novembre 2016 ‒ in viaggio verso il continente latino-americano per prendere parte al vertice dell’APEC di Lima ‒ e la seconda in assoluto in Europa, dopo il ‘tour’ del 2014, tra L’Aja, Parigi, Berlino e Bruxelles, rappresenta un’occasione per fare il punto della situazione sui rapporti tra Cina e Unione Europea (UE).

Per quanto formalmente caratterizzati da “una partnership strategica complessiva”, con una “relazione che si evolve stabilmente negli interessi delle due parti” – nel 2018 la RPC è stata il secondo partner commerciale dell’UE per il quattordicesimo anno consecutivo, e l’UE il principale partner commerciale di Pechino per il tredicesimo anno consecutivo – i rapporti tra RPC e UE sono di fatto contrassegnati da diverse questioni critiche che contribuiscono a rendere altalenante il rapporto bilaterale, inibendo di fatto la costituzione del tanto auspicato asse sino-europeo (in funzione anti-USA) e rallentando la creazione di un nuovo ordine mondiale multipolare. Tali questioni, a partire dall’embargo sulle armi in vigore dal 1989, dal mancato riconoscimento a Pechino dello status di economia di mercato, per arrivare alla percepita aggressività del progetto strategico di rinascita dell’antica Via della Seta, con riferimento soprattutto ai Paesi dell’Europa centrale e orientale, rimandano tutte al dilemma principale dell’UE, ossia alla sua incapacità di parlare con una ‘voce sola’ su molte delle questioni che attengono alla politica estera, e alla perdurante tendenza a muoversi secondo l’approccio del ‘minimo comune denominatore’.

Alcuni cablogrammi resi pubblici qualche anno fa da WikiLeaks hanno messo in evidenza, per esempio, le differenti posizioni degli Stati membri dell’Unione Europea in merito alla possibile revoca dell’embargo, più volte richiesta da Pechino, con il gruppo degli Stati più grandi ed economicamente sviluppati che intrattengono forti rapporti economici con la Cina, vale a dire Germania, Francia, Italia e Spagna favorevoli alla sua revoca, e il gruppo dei Paesi del Nord contrari. Non meno rilevante è la tipica tendenza delle due parti a gestire le divergenze che le oppongono, anziché coltivare le convergenze in grado di avvicinarle. Come ha suggerito lo stesso presidente cinese, nel discorso pronunciato al Collegio d’Europa di Bruges, il 1° aprile 2014, in occasione della sua prima visita nel vecchio continente, «è sul piano della civiltà che l’Unione Europea e la Cina hanno vere radici in comune» e su quelle bisogna lavorare, al di là delle inevitabili differenze. Non a caso, alla fine del suo discorso, Xi Jinping aveva ripreso, assai abilmente, un concetto molto caro agli europei, ossia il bisogno di ‘essere uniti nella diversità’, riportandolo all’antica massima confuciana dell’‘armonia senza uniformità’ (he er bu tong), che differisce sostanzialmente dall’idea di uniformità ideologica a lungo sponsorizzata dall’Occidente.

Ciò detto, il vivace dibattito che ha animato politici, imprenditori ed esperti nelle ultime settimane, e riportato su giornali, TV e social media in generale, relativamente all’opportunità o meno per il governo italiano di firmare un memorandum di intesa con Pechino nell’ambito della cosiddetta Belt and Road Initiative (yi dao yi lu), meglio nota come Nuova Via della Seta, andando contro i desiderata di Washington, ma, soprattutto, nonostante le critiche di Bruxelles, non è che l’ennesima manifestazione circa l’incapacità dell’Unione Europea di agire come un unico attore politico. È importante sottolineare il fatto che l’Italia non sarebbe il primo Paese europeo a siglare un accordo con Pechino sulla Belt and Road Initiative (BRI) – sebbene sarebbe uno dei primi tra i membri fondatori delle istituzioni europee e tra i primi dell’Alleanza Atlantica. Al contrario, sono già tredici i Paesi dell’Unione Europea che hanno siglato un documento di tal fatta con la Cina, ossia Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia. Si tratta per la maggior parte di Paesi facenti parte del cosiddetto Forum 16 + 1 (CEEC-China), un forum economico e commerciale biennale lanciato da Pechino nel 2012 al fine di intensificare e ampliare la cooperazione con i Paesi dell’Europa centrale e orientale, tra cui undici Stati membri dell’UE (Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Ungheria) e cinque Paesi balcanici (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Montenegro, Serbia), investiti da un processo di adeguamento ai requisiti necessari per un futuro ingresso nell’Unione. Tra questi la Bosnia ed Erzegovina è ufficialmente riconosciuta come potenziale candidato, avendo Sarajevo già presentato formale domanda di adesione. Non stupisce pertanto che l’iniziativa in questione sia stata interpretata e criticata da Bruxelles come una sorta di strategia di “divide et impera”, in grado di minare la coesione economica e politica dell’Unione, di esercitare un’influenza negativa sui Paesi membri e sulle scelte strategiche dei membri potenziali, portandoli più vicini alla Cina attraverso una politica di investimenti e più stretti rapporti commerciali. Proprio in quest’area risultano concentrati i principali investimenti cinesi nell’ambito della Nuova via della seta.

Le maggiori critiche di Bruxelles alla BRI sono dirette, oltre che alla sua stretta identificazione con il Partito – in occasione del 19° Congresso del PCC (ottobre 2017) la BRI è stata inserita nello Statuto del PCC, come parte integrante del cosiddetto Xi Jinping pensiero “sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” (Xi Jinping xin shidai Zhongguo tese shehuizhuyi sixiang) – con tutto ciò che ne consegue in termini di potenziali pressioni e interferenze da parte del governo comunista, in considerazione della rilevanza giocata dalle grandi aziende di Stato nell’Iniziativa, al mancato rispetto degli standard internazionali (con riferimento all’affidamento di lavori in assenza di gare d’appalto pubbliche), anche e soprattutto alla creazione di crescenti livelli di dipendenza dei Paesi coinvolti nei confronti di Pechino, per via della loro incapacità a ripagare i debiti contratti per la realizzazione delle infrastrutture.

Secondo un rapporto pubblicato dal think tank americano Center for Global Development, nel marzo 2018, la BRI starebbe producendo delle gravi controindicazioni finanziarie per alcuni Paesi già problematici di per sé, i quali potrebbero avere delle difficoltà a sopportare il loro debito a causa dei finanziamenti elargiti dalla RPC per sviluppare progetti nell’ambito dell’Iniziativa. Tra questi rientrerebbe anche un Paese europeo, parte del gruppo CEEC, ossia il Montenegro.

Alla luce di quanto detto sopra, non stupisce l’attenzione sull’opportunità o meno per l’Italia di siglare un memorandum d’intesa con la Cina sulla BRI, sebbene l’Italia sia uno dei cinquantasette Stati fondatori della Banca asiatica di investimento per le infrastrutture (AIIB), insieme a Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, e sia stato uno dei pochi Paesi europei rappresentati al I forum sulla Via della Seta organizzato nella capitale cinese nel maggio 2017.

Per Pechino, l’Europa rappresenta il punto di arrivo di ambedue le rotte e il partner politico principale dell’Iniziativa – la RPC ‒ ha più volte enfatizzato come la BRI sia complementare ai piani preesistenti, europei e cinesi, per lo sviluppo delle connessioni tra Cina e Europa, e non solo. In questo senso, e alla luce dei passi indietro compiuti dall’amministrazione Trump nell’integrazione globale e nei diversi ambiti della cooperazione internazionale, la collaborazione tra Europa e Cina diventa ancora più fondamentale per salvaguardare l’avanzamento della globalizzazione e dello sviluppo tecnologico ed economico.

Immagine: Xi Jinping al vertice del G20 a Hangzhou, Cina (4 settembre 2016). Crediti: plavevski / Shutterstock.com

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