Nel lontano 1945, alla vigilia della Conferenza di Postdam, il Dipartimento di Stato statunitense definì le relazioni tra Washington e Ankara come pacifiche e amichevoli, nonché basate sui seguenti principi democratici: «il diritto dei popoli a scegliere liberamente i loro sistemi politici, economici e sociali; l’uguaglianza nei rapporti commerciali; la libertà di stampa; la difesa delle istituzioni scolastiche americane in Turchia; la protezione dei diritti degli americani». Su questa strada la Turchia, nel 1952, aderì alla NATO, divenendone il baluardo nel Mediterraneo, un’area di interesse strategico per gli USA, a partire, soprattutto, dalla guerra fredda.

Le cose iniziarono a cambiare nel 2002 con l’arrivo al governo del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP, Adalet ve Kalkınma Partisi) fondato da Recep Tayyip Erdoğan. Il partito islamista ha impresso, fin dall’inizio, un rinnovato orientamento alla politica estera turca, proiettandola verso una maggiore attenzione al Medio Oriente e agli Stati del Maghreb. Ciò non è avvenuto solo per affinità religiosa e culturale con gli altri Paesi musulmani dell’area, ma è stata una precisa scelta politica per dare un nuovo ruolo ad Ankara nel “turbolento” vicinato. La sfida per la Turchia del XXI secolo sarebbe stata quella di considerarsi come il centro di diverse regioni geopolitiche interconnesse tra loro, svincolandosi dal ruolo di semplice avamposto occidentale.

Negli anni, la Turchia sembra aver quasi completato il suo disegno e appare, di giorno in giorno, sempre più aggressiva nel Mediterraneo. La strategia di Ankara è quella di perseguire il proprio interesse nazionale anche se questo non coincide, e anzi spesso collide, con quello europeo e italiano e con il suo ruolo nella NATO.

Le ambizioni di potenza neo-ottomana sono ben definite e, tra tutte, quella che sembra spiccare in questo momento è di divenire una piattaforma strategica per i flussi energetici, sfruttando i giacimenti mediterranei per ambire all’indipendenza energetica. Inoltre, rafforzare la propria proiezione di potenza fuori dai propri confini permetterebbe a Erdoğan di ricompattare un consenso popolare fattosi meno saldo a causa della recessione economica nel Paese.

I fatti recenti confermerebbero questa tesi. Il crescente attivismo turco nel mare nostrum, con l’obiettivo di assurgere a un ruolo di primo piano nella ridefinizione degli equilibri geopolitici regionali, sembra aver trovato il suo punto focale nella politica energetica. Detto in altri termini, la Turchia vuole aumentare la propria capacità di acquisizione del gas sia per motivazioni di ordine egemonico, sia economico, esportando verso altri mercati. Questa posizione di hub energetico le permetterebbe, poi, di condizionare parte delle decisioni relative all’area del Mediterraneo e del Medio Oriente. Nell’ambito di questa strategia devono leggersi non solo l’azione di Ankara con riferimento alla questione delle perforazioni nella Zona economica esclusiva (ZEE) della Repubblica di Cipro, e in parte le cicliche escalation delle tensioni con la Grecia, ma anche l’accordo del 27 novembre del 2019 tra Erdoğan e il Governo di accordo nazionale (GNA) di Fayez al-Sarraj che ha fissato il confine delle ZEE tra Turchia e Libia, comprendendo anche zone marittime che la Grecia, sulla base della United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), aveva in precedenza definito come parte della propria ZEE.

Le mosse di Ankara potrebbero poi essere utilizzate per opporsi alla costruzione, prevista, seppure con qualche difficoltà entro il 2025, del gasdotto EastMed. L’accordo per la sua realizzazione, firmato nel gennaio 2020 tra Israele, Cipro e Grecia prevede di collegare l’infrastruttura dalle coste greche a quelle italiane escludendo, di fatto, la Turchia dalla partita del Mediterraneo orientale, sia in termini di sicurezza energetica che di influenza politica. È evidente che, seppure Erdoğan non può utilizzare l’accordo con la Libia per bloccare il gasdotto, potrebbe “mettere “i bastoni tra le ruote” agli altri Stati coinvolti e raggiungere posizioni più vantaggiose in merito allo sfruttamento delle risorse di gas del Mediterraneo orientale. Se, per esempio, Ankara, dovesse trovare del gas nella zona tra Libia e Turchia, avrebbe un peso importante nelle decisioni riguardanti lo sfruttamento energetico di questo tratto di mare, mirando addirittura a un posto nel Forum del gas sul Mediterraneo orientale (EMGF, East Mediterranean Gas Forum). Tale Forum, realizzato nel gennaio del 2019 al Cairo, vede la partecipazione di Egitto, Grecia, Cipro, Italia, Israele, Giordania e Autorità nazionale palestinese. Attualmente Ankara è esclusa a causa dell’evidente ostruzionismo di Egitto e Grecia (che a loro volta hanno firmato un accordo per una zona economica esclusiva), Cipro e Israele, e ha tra i suoi obiettivi quello di creare un clima di buon vicinato attraverso la cooperazione regionale nel campo dell’energia. Seppure l’ipotesi resta abbastanza remota, sarebbe un “bel colpo” per la Turchia entrare nel “club” dalla porta principale, chiudendo, così, la partita del gas a suo vantaggio.

Davanti a questo scenario non resta che chiedersi: fin dove arriverà la Turchia? È probabile che molto dipenderà dal ruolo americano. Gli Stati Uniti sono coinvolti in una partita a tutto campo ‒ che va dai Balcani al Mediterraneo orientale ‒ per limitare possibili ingerenze cinesi e russe nella regione. Coerenti con la loro strategia del “disimpegno mediterraneo”, gli USA hanno sviluppato una sorta di “neutralità attiva”: con un approccio strettamente funzionalista, utilizzano i propri alleati (Emirati Arabi Uniti, Francia, Italia, Egitto, Turchia etc.) per raggiungere i loro obiettivi strategici. In questo caso, anche se non stanno apprezzando le iniziative turche, non vogliono esacerbare lo scontro con Ankara, un alleato importante, soprattutto in chiave antirussa. Tuttavia, un’escalation della tensione nella regione non sarebbe ignorata dalla diplomazia americana e forse gli USA potrebbero mettere un freno alla spregiudicatezza del Sultano.

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