La crisi energetica e l’aumento dei prezzi hanno colpito tutta l’Europa in maniera pressoché uniforme, ma c’è un Paese che sta pagando più del previsto questa combinazione di eventi avversi. Si tratta dell’Ungheria, la cui economia è entrata in sofferenza da diversi mesi e non sembra destinata a riprendersi, complice anche un’inflazione record. A questo si aggiunge l’isolamento politico di Budapest a livello europeo, dovuto principalmente alla posizione ambigua mantenuta dal primo ministro Viktor Orbán di fronte alla guerra in Ucraina. Il capo del governo si è infatti visto costretto ad accettare i pacchetti di sanzioni contro Mosca, dimostrandosi tuttavia restio a “rovinare” il rapporto privilegiato intessuto a livello economico ed energetico con la Russia. In una prima fase, l’esecutivo di Budapest non ha potuto opporsi alle misure decise in tempi molto rapidi dall’Unione Europea (UE) e dai partner NATO, subito dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Con il passare dei mesi ha però cominciato a fissare dei paletti per rallentare l’approvazione dei successivi pacchetti di sanzioni, strappando eccezioni favorevoli per mantenere alcuni dei vantaggi competitivi sul mercato energetico. Il Paese dell’Europa centrale acquista infatti dalla Russia il 65% del petrolio e l’85% dal gas naturale necessari al fabbisogno nazionale.
La crisi economica, sviluppatasi attraverso il rincaro delle materie prime e l’aumento dell’inflazione, ha tuttavia messo in difficoltà il governo di Orbán: nelle scorse settimane Budapest ha dichiarato lo stato d’emergenza energetica, stilando un piano in sette punti per preparare il Paese ad affrontare le ulteriori complicazioni previste per l’inverno. Tra le varie misure introdotte, l’esecutivo mira ad aumentare le capacità di produzione interna, portando il volume di gas naturale estratto a livello nazionale a 2 miliardi di metri cubi annui, dagli attuali 1,5 miliardi. Nei programmi figurano anche un maggiore ricorso alle centrali a carbone e un prolungamento dell’operatività dell’impianto nucleare di Paks. Le autorità ungheresi non fanno mistero di incolpare l’Europa per la crisi energetica, riferendosi alla «guerra prolungata e alle sanzioni di Bruxelles» come elementi determinanti nell’aumento dei prezzi a livello continentale. Il piano di Budapest sembra quindi orientato a dare un segnale ai cittadini, nel timore che il governo Orbán possa perdere il consenso di cui gode nel Paese.
A testimoniare la delicata situazione economica dell’Ungheria è poi la recente decisione della Banca centrale di alzare ancora una volta i tassi di interesse per tentare di contenere l’inflazione, che ha superato il 10%. A questo si aggiunge il peso del mancato esborso dei fondi della Commissione europea per la ripresa post-pandemica: il braccio di ferro tra Bruxelles e Budapest blocca infatti dal 2020 gli oltre 7 miliardi di euro teoricamente stanziati per l’Ungheria, a causa dell’annosa disputa sullo Stato di diritto. La dinamica economica rende infine difficilmente sostenibili tutte le misure introdotte dal governo Orbán in termini di sussidi ai cittadini, compreso l’aumento delle pensioni, che hanno inevitabilmente inciso sul deficit nazionale. La necessità di rivedere la politica fiscale, compresa l’introduzione di una tassa sui lavoratori autonomi, i freelance e le piccole imprese, ha portato migliaia di persone a protestare a Budapest, un sintomo preoccupante per un esecutivo che ha sempre puntato sulla solidità dell’economia per garantirsi il consenso alle urne.
Fattori interni ed esterni impongono dunque a Orbán di rivedere la propria posizione rispetto a dossier cruciali per l’Ungheria, primo tra tutti quello dei rapporti con l’Unione Europea. Secondo diverse fonti interne alla burocrazia di Bruxelles e alle istituzioni ungheresi, il primo ministro sarebbe disposto a cambiare approccio su temi quali la riforma della giustizia, gli appalti pubblici e la lotta alla corruzione, al fine di sbloccare almeno parzialmente i finanziamenti dall’UE. La Commissione potrebbe venire incontro al leader magiaro, nonostante i numerosi attriti avuti in passato e il difficile rapporto creatosi con sostanzialmente tutto il Consiglio europeo dopo l’invasione dell’Ucraina. Le concessioni di Orbán dovrebbero però essere sostanziali, segnando un effettivo cambio di passo sullo Stato di diritto e aprendo le prospettive a una serie di ulteriori modifiche negli equilibri istituzionali di Budapest. “Svanita” in aprile la possibilità che dalle urne arrivasse una sconfitta politica per Orbán e il partito Fidesz, l’UE deve gestire la relazione con il premier ungherese. Uno dei vantaggi di Bruxelles passa dal fatto che entro la fine del 2022 dovrà essere comunque approvato il Piano di ripresa e resilienza dell’Ungheria, pena la perdita del 70% dei fondi garantiti dal programma. Il governo di Budapest ha quindi pochi mesi per convincere le autorità UE a sbloccare i finanziamenti. Per usare la tattica del bastone e della carota, la Commissione nelle scorse settimane ha deciso di deferire l’Ungheria davanti alla Corte di giustizia dell’UE per la cosiddetta legge sulla tutela dei bambini, che violerebbe i diritti delle persone LGBTIQ e le norme del mercato interno, contenendo disposizioni “ingiustificate” rispetto agli obiettivi perseguiti. Budapest è stata deferita anche per la chiusura dell’emittente Klubrádió, considerata tra gli ultimi media indipendenti rimasti nel Paese. Difficilmente le autorità di Bruxelles potranno “piegare” Orbán su tutti i contenziosi apertisi in questi anni; allo stesso modo, il governo ungherese sa di non avere tempo da perdere e di dover accettare, almeno parzialmente, i tanto aborriti “Diktat” dell’UE sui temi ritenuti “insindacabili” nella retorica sovranista di Budapest. Servirà in ogni caso molto lavoro da entrambe le parti per giungere a un compromesso soddisfacente.
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