Le elezioni americane sono, da sempre, uno degli eventi internazionali maggiormente oggetto di osservazione e di dibattito a Zhongnanhai (sede del Partito comunista e del governo della Repubblica Popolare Cinese, RPC). Per quanto le relazioni sino-americane non siano mai assurte al rango di “partnership strategica”, costituiscono innegabilmente una delle priorità (forse la priorità) della politica estera cinese, al di là dell’andamento altalenante che le caratterizza, fin dall’avvio di relazioni diplomatiche ufficiali, nel gennaio 1979. Gli Stati Uniti rappresentano, infatti, una variabile determinante per molti capitoli dell’agenda politica, sia interna sia esterna, di Pechino (diritti umani, Taiwan, Mar Cinese Meridionale, tanto per citarne alcuni). Ben si comprende, pertanto, l’attenzione riposta dalla leadership di Pechino ai due candidati che si confrontano per le imminenti elezioni americane, in un periodo in cui le relazioni tra le due parti hanno raggiunto i “minimi storici”, complice la pandemia da Covid-19, che si è inserita in un contesto già stressato da una guerra commerciale che va avanti dal 2018, e che ha portato alcuni osservatori a parlare di un clima da “guerra fredda”. «Il confronto sta diventando conflitto e può finire in un esito disastroso per l’umanità», ammoniva Henry Kissinger – segretario di Stato americano fra il 1973 e il 1976, durante le presidenze di Richard Nixon e Gerald Ford, fautore dell’avvicinamento sino-americano e grande conoscitore e amico della Cina popolare – lo scorso mese di novembre, in un discorso tenuto a Pechino, e rivolto ad entrambe le amministrazioni.

Dietro un clima di calma apparente, c’è un acceso dibattito in corso all’interno dell’establishment della politica estera cinese su quale tra i due candidati possa rappresentare il classico “male minore” per la RPC. Sia Donald Trump che John Biden hanno, infatti, definito la Cina una minaccia centrale per gli interessi degli Stati Uniti, al di là delle connessioni personali di entrambi con il leader cinese Xi Jinping, delle quali si sono spesso vantati in passato, per poi prenderne le distanze via via che la pandemia rivelava tutta la sua gravità, ed emergevano le responsabilità di Pechino relativamente alle omissioni iniziali sul virus, prospettando tempi duri per il governo comunista cinese. Ciò detto, laddove la retorica trumpiana è ben nota a Pechino, quella di Biden è oggetto di maggiore riflessione. Per quanto la campagna di quest’ultimo sia percepita, anche in Cina, come un’offerta agli elettori americani di un “ritorno alla normalità”, questo stesso ritorno non si prospetta tale nell’ambito delle relazioni con la RPC; in altre parole, è probabile che Pechino si aspetti cambiamenti nello stile, ma non nella sostanza della politica statunitense nei prossimi quattro anni.

Non a caso, a dispetto di quanto va affermando il presidente Trump, secondo il quale Pechino starebbe facendo il tifo per Biden per continuare ad affossare l’economia statunitense attraverso pratiche commerciali scorrette, le posizioni in Cina sono assai meno nette. Al contrario, alcuni studiosi riportano come molti cinesi comuni auspichino una vittoria di Trump, in quanto funzionale alla continua ascesa del loro Paese. Come è noto, la Cina punta, nel lungo periodo, a sostituirsi agli Stati Uniti nel ruolo di superpotenza egemone a livello globale e ambisce a rifondare l’ordine mondiale – lo stesso nei confronti del quale Trump è andato mostrando una crescente insofferenza – secondo caratteristiche proprie (le cosiddette “caratteristiche cinesi”, zhongguo tese). Le scelte dell’amministrazione Trump hanno, infatti, contribuito a minare il sistema di alleanze di Washington, in Occidente come in Oriente, dando agli alleati l’impressione che gli Stati Uniti non siano più una potenza responsabile e affidabile, rafforzando al contempo lo spirito di coesione dei cinesi e dando alla Cina la possibilità di guadagnare terreno, come rivelato dai discorsi pronunciati da Xi Jinping in diversi consessi, a partire dal World Economic Forum di Davos, nel gennaio del 2017, che hanno ricevuto il plauso della comunità internazionale. Una conferma della preferenza di Pechino per Trump risiederebbe, secondo alcuni osservatori, nel rispetto della tregua commerciale siglata il 15 gennaio 2020 – l’a_ccordo_ sulla cosiddetta “Fase uno”. Il fatto che la Cina stia cercando di sostenere l’accordo con gli Stati Uniti, con l’acquisto di soia e cereali, sarebbe una chiara dimostrazione dell’interesse a sostenere Trump; l’impegno cinese è assai significativo per il presidente degli Stati Uniti, in termini di risultati da esibire nei confronti degli agricoltori americani, duramente colpiti dalla guerra commerciale, che rappresentano un segmento elettorale fondamentale). Paradossalmente, secondo un articolo di Cnn Business dell’agosto scorso, pur essendo il commercio la causa principale degli attriti tra i due Paesi negli ultimi anni, di fatto è l’unica cosa che funziona nel rapporto bilaterale. Viceversa, una nuova amministrazione democratica potrebbe lavorare nel tentativo di ripristinare una politica estera “tradizionale” in grado di riportare gli Stati Uniti al loro ruolo di guida della comunità internazionale e di difensore del sistema internazionale, il che rende Joe Biden un candidato meno desiderabile per Pechino.

Ovviamente, la Cina non è un monolite, ma al suo interno esistono visioni contrastanti. Molti cinesi, appartenenti all’élite di coloro che hanno la fortuna di studiare e viaggiare in Occidente, sono colpiti dal livello di antagonismo raggiunto tra le due superpotenze, e auspicano una vittoria di Biden, nella speranza di un ripristino dei programmi culturali, educativi e di altro tipo. Questa speranza trova concordi anche molti esponenti del mondo accademico (ma non solo) statunitense. Può essere interessante riportare i contenuti di una lettera scritta nel luglio del 2019 da cinque eminenti studiosi americani (ma firmata da cento noti esponenti di vari settori), indirizzata al presidente Trump e al Congresso americano, per esprimere le loro preoccupazioni in merito alla politica aggressiva portata avanti nei confronti della Cina popolare. Intitolata significativamente Making China a U.S. enemy is counterproductive, la lettera metteva in evidenza la presenza, nel Paese, di posizioni discordanti in merito alla percezione della Cina e l’inesistenza di un unico consenso a Washington.

In altre parole, per quanto la condanna delle politiche cinesi sia diventata trasversale nel dibattito pubblico statunitense – la Cina non è più soltanto una questione di politica estera nelle prossime elezioni, ma è diventata una sorta di problema quasi esistenziale, in quanto con il suo virus mette a rischio la vita stessa degli americani, con le sue pratiche scorrette ostacola l’economia nazionale e compete con gli Stati Uniti per la leadership globale – e Pechino si sia forse rassegnata alla natura irritabile delle relazioni con Washington nel prossimo futuro, emerge chiaramente una condivisione di punti di vista nella componente istruita di entrambi i Paesi, nella consapevolezza che «gli Stati non hanno né amici permanenti né nemici permanenti. Hanno solo interessi», per citare ancora una volta Kissinger e Henry John Temple, due volte premier britannico a metà dell’Ottocento, che pare abbia pronunciato per primo la frase.

Immagine: Donald Trump sulla copertina di una rivista in un’edicola. Il 6 aprile si era tenuto il primo incontro tra Trump e Xi Jinping, Pechino, Cina (7 aprile 2017). Crediti: testing / Shutterstock.com

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