A meno di 24 ore dall’inizio del voto di midterm – un referendum su Donald Trump, come fu per Obama il voto di metà mandato del 2010 – si possono trarre alcune considerazioni su quello che ci ha detto questa campagna elettorale a proposito dello stato della politica americana. Qui di seguito verranno trattati sommariamente 3 punti: 1. lo stato delle previsioni, a oggi (una nuda sintesi di quello che i migliori analisti americani vanno ripetendo da tempo); 2) si sosterrà che queste elezioni sono in piena continuità – dal punto di vinta sociodemografico – con le elezioni del 2016, e che il loro risultato dipenderà dall’esito della guerra tra democratici e repubblicani per la conquista di uno specifico elettorato bianco; 3) che lo scontro politicamente più interessante, non essendo emerso un antagonista elettorale del trumpismo, è stato quello tra la mobilitazione delle donne e il presidente degli Stati Uniti.

1. In generale, continua a sembrar vero ciò che si diceva in settembre: la Camera dei rappresentanti dovrebbe divenire democratica, il Senato no. È però possibile immaginare una partecipazione al voto più alta del previsto, considerando come le elezioni di metà mandato siamo spesso ignorate dalla maggior parte dei cittadini americani. In questa rielaborazione di Martino Mazzonis, si può osservare come – in alcuni Stati – vi sia stata un’impennata nella partecipazione all’early voting (in molti Stati è permesso anticipare il voto, per posta o recandosi in seggi speciali). La partecipazione all’early voting è triplicata fra i giovani (il che fa sperare i democratici), ma anche i sostenitori di Trump sono in grado di contro-mobilitare i propri. Ai democratici serve strappare 23 seggi ai repubblicani. Le previsioni dicono che i seggi in bilico – Cook Report ne conta 73 in tutto il Paese, parecchi in un sistema dominato dal gerrymandering – sono quasi tutti repubblicani, soprattutto nei sobborghi dei centri urbani; aree con un reddito e un livello di istruzione più alti della media, nei quali la presenza di minoranze è inferiore alla media nazionale. Il Partito democratico – se guardiamo al voto segmentato – stravince fra i “non bianchi” (66% di consensi); gli under Quaranta (58%) e le donne con un titolo di studio (62%). Anche il voto dei cosiddetti “indipendenti” potrebbe premiare i democratici.

2. A questi ultimi, però, un’impennata di partecipazione elettorale fra i giovani e le donne potrebbe non bastare. Perché? Sarebbe un ottimo segno in vista del voto del 2020 – quando conterà prendere i voti di un intero Stato, e non di un singolo seggio – ma conta meno oggi, vista la tendenza dei collegi elettorali a essere sempre più omogenei dal punto di vista sociodemografico. I seggi contendibili, in questo 2018, sono a preponderanza bianca. Di 14 seggi attualmente repubblicani nei quali i democratici hanno un vantaggio sostanziale, solo uno possiede una percentuale di “non bianchi” superiore alla media nazionale. Nei 29 in bilico, ciò accade solo in 11 casi e solo al Sud (per contro, la presenza delle minoranze supera la media nazionale nei due terzi dei collegi già in mano ai democratici). Discorso analogo si potrebbe fare in relazione alla distribuzione degli elettori per età: i collegi in bilico non sono collegi “giovani”. Secondo Ronald Brownstein – i dati appena riportati sono quelli della CNN, per la quale analizza il voto – i sondaggi del 2018 sembrano rafforzare le tendenze del voto del 2016: i centri urbani contro l’America rurale (bianca e poco istruita); nel mezzo i sobborghi e le zone meno urbanizzate delle aree metropolitane, dove conterà il giudizio nei confronti dell’amministrazione Trump. Secondo Brownstein nel voto americano si era consolidata la presenza di zone “viola”, che votavano in modo diverso alle presidenziali e nel midterm. Per semplificare: zone trumpiane con un po’ di congressmen democratici, zone clintoniane con deputati repubblicani. La polarizzazione del voto starebbe contagiando queste ultime isole di “purple America”. Brownstein utilizza a supporto del suo ragionamento questo dato: di 14 collegi che dovrebbero passare ai democratici, nel 2016 8 si schierarono con Hillary Clinton, mentre gli altri 6 diedero un margine di vittoria a Trump mai superiore al 5%. Ma quanto continua a essere grave il problema dei democratici con la base elettorale bianca e popolare? L’analista della CNN suggerisce di osservare, in questo senso, alcune battaglie chiave in collegi “blue collar” dove i deputati repubblicani potrebbero essere in difficoltà: Bruce Poliquin in Maine, John Faso e Claudia Tenney nello Stato di New York, Mike Bost in Illinois, Scott Taylor in Virginia (è un test importante anche in previsione del 2020).

3. La battaglia fra i movimenti delle donne e Trump sarà un tema caldo fino al 2020. In questi due mesi se ne è parlato tantissimo (anche in riferimento ai dati elettorali di cui si è discusso sopra), soprattutto a cavallo della nomina a Giudice costituzionale di Brett Kavanaugh. Intanto i dati ci dicono che a cambiare sarà la classe politica americana: più di 3000 candidate donne nel livello federale e statale (la percentuale più alta della storia degli USA, 260 per il solo Congresso), con molti profili inusuali che hanno riempito le cronache dei giornali. Allo stesso tempo, la percentuale di donne che ha donato denaro a un candidato è salita del 36% fra il 2016 e il 2018. Ma prima delle candidature vi era stata la Women’s March di Washington del 21 gennaio 2017 – lo slogan era stato «We’re not going away», e un allargamento del concetto di “women’s issue”, oltre i temi tradizionali (parità di genere nei luoghi di lavoro, violenza di genere, aborto): la questione della riforma sanitaria, l’immigrazione, l’ambiente, il problema della diffusione delle armi. A scegliere una battaglia simbolo – ce n’è più di una – vale la pena tenere gli occhi aperti sulla corsa al governatorato della Georgia, dove Stacey Abrams potrebbe essere la prima donna nera a raggiungere la carica, dopo 82 bianchi di sesso maschile consecutivi.

Per concludere: manca poco per conoscere la verità. Le implicazioni politiche potrebbero sentirsi fino in Europa – la prima sconfitta dell’internazionale sovranista – ma resta soprattutto la necessità di porre attenzione sulla dimensione di guerra civile a bassa intensità che stanno vivendo gli Stati Uniti.

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