Il 23 luglio il dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti ha annunciato formalmente un’indagine della divisione antitrust sul potere di mercato delle principali piattaforme digitali e sulle pratiche che possono aver ridotto la competizione, frenato l’innovazione o danneggiato i consumatori. Il giorno dopo, il 24 luglio, è stato reso pubblico l’accordo tra Facebook e la Federal Trade Commission degli Stati Uniti: l’azienda di Mark Zuckerberg pagherà la più grande multa di tutti i tempi per violazione della privacy, 5 miliardi di dollari. Dovrà inoltre adeguare le sue normative sulla privacy per dare maggiori poteri all’agenzia americana, anche attraverso un monitoraggio periodico fornito dallo stesso Zuckerberg. Un’attenzione che non bisogna sottovalutare, perché il governo americano sa essere molto attento nelle sue prescrizioni.

Questi eventi si collocano all’interno di una più generale crescita di consapevolezza del ruolo geopolitico della tecnologia, soprattutto nello specchio della competizione tra Stati Uniti e Cina, in cui, come già visto in precedenza, la sfida di Huawei è affrontata attraverso una serie di azioni legali e con il rafforzamento degli strumenti di controllo e di esclusione sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Apparati politici e giganti tecnologici soffrono entrambi di una riduzione della fiducia dal basso. Da un lato, e non è una novità, le persone non si fidano dei politici, non si fidano del modo in cui funzionano Washington, Bruxelles, Roma, e cercano chi propone di cambiare le cose, per poi passare al successivo tentativo di cambiamento, e così via. Dall’altro lato, è in crisi la stessa fonte di legittimazione pubblica dei servizi digitali, una volta ammantata da un alone di buonismo propagandistico (il motto “Don’t be evil” di Google, il mito della connessione universale di Zuckerberg) e ormai apertamente messa in questione, sia per l’operato finanziario di queste aziende che per il loro impatto sull’occupazione.

Allo stesso tempo i grandi attori digitali americani, al di là delle ipocrisie, fanno già politica a tutto tondo: per il loro potere nella vita delle persone, per i loro ingenti finanziamenti alla politica, per le loro connessioni con il governo americano che riguardano anche, per esempio, i contratti con gli apparati militari e i servizi di sicurezza. In questo scenario complesso, si è inserita una nuova attenzione nel dibattito delle idee degli Stati Uniti per il ruolo dell’antitrust: la sua pietra miliare può essere considerato l’articolo del 2017 di una studentessa dell’Università di Yale, Lina Khan, dedicato al potere di Amazon, al suo controllo di infrastrutture critiche del mondo digitale. Quest’anno, il reclutamento della stessa Lina Khan come consulente del sottocomitato antitrust e diritto commerciale e amministrativo della Camera dei rappresentanti ha segnalato un crescente interesse per questi temi soprattutto da parte democratica, che potrà avere un’eco ulteriore nel dibattito delle primarie.

Oltre la definizione filosofica, economica e giuridica dell’antitrust in una nuova era, rimane centrale il tema del conflitto tra gli Stati Uniti e la Cina. La migliore illustrazione di questa centralità viene dalla strategia con cui Facebook si difende dall’attenzione del governo e tende a giustificare tutti i suoi progetti, compresa la valuta digitale Libra. La strategia è: “O noi o i cinesi”. O noi innoviamo per conto nostro, o lo faranno i cinesi. O noi gestiamo la moneta elettronica, o arriverà la moneta dei cinesi. I principali dirigenti di Facebook, dallo stesso Mark Zuckerberg, alla direttrice operativa Sheryl Sandberg, fino all’ex vicepremier britannico Nick Clegg (assunto dall’azienda meno di un anno fa), usano tutti quest’argomento, rapportandosi al governo americano, e quindi evidenziando sempre di più il loro carattere “nazionale” per non incorrere nelle tagliole dei controlli e delle regole.

Immagine: Mark Zuckerberg (24 maggio 2018). Crediti: Frederic Legrand - COMEO / Shutterstock.com

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