Lunedì 29 novembre riprendono a Vienna i colloqui per il ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano, il cui nome ufficiale è Joint Comprehensive Plan Of Action (JCPOA). L’intesa è stata pattuita nel 2015 da Teheran e il cosiddetto gruppo P5+1, formato da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Cina, Russia e Germania (in coordinamento con l’Unione Europea). A maggio del 2018 l’amministrazione dell’allora presidente americano, Donald Trump, ha deciso unilateralmente di sfilarsi dall’accordo, varando un duro regime di sanzioni contro la Repubblica islamica. Oggi, dopo un’interruzione di diversi mesi, il dialogo riprende in un clima d’incertezza, dal quale gli esperti dubitano possa venir fuori alcuno sviluppo particolarmente significativo. Tuttavia, come evidenziano diversi media internazionali, il ritorno al tavolo dei negoziati darà indicazioni importanti su come verranno gestite le relazioni USA-Iran ora che al potere ci sono il presidente democratico, Joe Biden, e il conservatore Ebrahim Raisi, succeduto a Hassan Rohani alla guida dell’Iran ad agosto 2021.

L’inviato speciale degli Stati Uniti per l’Iran, Rob Malley, ha dichiarato il 19 novembre che «il tempo stringe», in riferimento alla possibilità di negoziare un ritorno al JCPOA, precisando che i partner regionali degli Stati Uniti sostengono chiaramente il ripristino dell’intesa. Malley ha aggiunto che, in ogni caso, il presidente Biden non permetterà a Teheran di sviluppare un’arma nucleare. Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stato americano, ha dichiarato il 23 novembre che la posizione degli Stati Uniti è quella del ritorno alla «reciproca conformità» di Washington e Teheran al JCPOA. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ha affermato dal canto suo che mentre l’Iran si accinge a tornare al tavolo di Vienna «non c’è bisogno di negoziati», nel senso che gli Stati Uniti dovrebbero semplicemente revocare le sanzioni imposte nel 2018.

Rafael Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), che monitora il rispetto da parte dell’Iran del JCPOA, ha dichiarato il 24 novembre che i suoi ultimi incontri e ispezioni in Iran sono stati «inconcludenti» e che il ruolo dell’Agenzia è stato «gravemente minacciato» dalla «decisione dell’Iran di interrompere l’attuazione dei suoi impegni relativi al nucleare nell’ambito del JCPOA». Un rapporto dell’AIEA, rilasciato ad agosto, rilevava che la Repubblica islamica sta arricchendo l’uranio al 60%, ben al di sopra del limite del 3,67% previsto dal JCPOA. Ciononostante, va sempre sottolineato con la dovuta enfasi che per lo sviluppo di armi nucleari è necessario un arricchimento dell’uranio oltre il 90% di purezza.

Gli altri contraenti – rappresentati a Vienna dalle delegazioni di Francia, Regno Unito, Cina, Russia e Germania – sembrano tutti abbastanza favorevoli ad un ripristino dell’accordo, ferma restando la necessità di impedire lo sviluppo nel nucleare a uso bellico da parte di Teheran, ma la situazione è tutt’altro che semplice. Si fa strada, come ad aprile scorso, la possibilità di un accordo intermedio in grado di accontentare le parti, anche se solo momentaneamente. Barak Ravid, corrispondente per il Medio Oriente del sito statunitense Axios, sostiene che l’idea di un’intesa provvisoria per «rompere il ghiaccio» è tutt’altro che peregrina. Ne ha parlato anche il ministro degli Esteri iraniano Amir-Abdollahian, suggerendo la prospettiva di «un gesto di buona volontà» da parte degli Stati Uniti, rilasciando – ad esempio – 10 miliardi di dollari in beni congelati all’estero e appartenenti all’Iran. Price, tuttavia, ha ribadito che gli USA non sono «disposti a intraprendere azioni unilaterali volte esclusivamente a oliare gli ingranaggi». Una metafora più che eloquente.

Il sito di notizie Al Monitor – di base negli USA – elencava già ad agosto almeno quattro buoni motivi per cui il nuovo presidente iraniano Raisi potrebbe auspicare un ritorno al JCPOA. Il primo, banalmente, è la situazione economica in cui versa la Repubblica islamica: dal 13,4% di crescita del PIL nel 2017 si è passati a due anni consecutivi di contrazione economica, -6,8% nel 2018 e -6% nel 2019, complice la nuova stretta sanzionatoria voluta da Trump. Nel 2020, poi, è arrivata anche la pandemia di Covid-19. Un ritiro delle sanzioni, anche solo parziale, fornirebbe una buona boccata d’ossigeno al tessuto produttivo e sociale iraniano. Il secondo motivo è che l’accordo sul nucleare gode ancora di un certo appeal presso l’opinione pubblica iraniana, che ha eletto Raisi attraverso un voto distaccato e segnato da rassegnazione e scarsa affluenza. D’altronde sono i cittadini comuni, il ceto medio e le classi subalterne, a subire i contraccolpi più violenti del regime di sanzioni. La terza ragione è che Raisi, durante e dopo la campagna elettorale, si è guardato bene dal criticare o peggio condannare apertamente l’accordo sul nucleare. Anzi, ha ribadito ad ogni occasione possibile che «rispetteremo sicuramente il JCPOA nel formato che è stato approvato con nove clausole dal leader supremo, poiché è un contratto e un impegno che i governi devono rispettare». Ultimo, ma non meno importante, l’ex ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif – tra i principali sostenitori dell’intesa – ha lasciato il suo incarico dichiarando che un «framework» per rilanciare il JCPOA era stato quasi raggiunto con gli USA, precisando inoltre di averlo consegnato al nuovo governo. Zarif ha anche affermato che Washington ha accettato di rimuovere la maggior parte delle sanzioni, esprimendo la speranza che i colloqui diplomatici approdino a risultati concreti.

Insomma, le premesse per un ritorno all’intesa ci sarebbero anche. Ma è presto per sbilanciarsi in previsioni che finirebbero per risultare azzardate. Quel che è sembra certo è che dall’inizio dei colloqui si capirà praticamente subito qual è lo spirito e l’atteggiamento che i contraenti intenderanno adottare nel corso di questo ennesimo round di colloqui.

Immagine: Il Palazzo delle Nazioni Unite con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica IAEA, Vienna, Austria (23 maggio 2018). Crediti: Ralf Punkenhofer / Shutterstock.com

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