Se i pasdaran iraniani hanno dichiarato di aver messo fine alle proteste che hanno interessato decine di città nel Paese subito dopo Capodanno, resta ancora da definire con precisione il rapporto tra le motivazioni economiche e quelle politiche alla base delle manifestazioni contro il governo. Dal punto di vista di Teheran non sono del resto mancate le voci che hanno attribuito la responsabilità delle proteste ad attori stranieri.

Tra gli indiziati principali gli Stati Uniti di Donald Trump, che in diversi tweet ha espresso il suo sostegno ai manifestanti, e, soprattutto, l’Arabia Saudita. Ali Shamkhani, segretario del Consiglio Supremo per la Sicurezza nazionale iraniano, ha infatti denunciato che il 27% degli hashtag antigovernativi generati sui social network sono stati lanciati in Arabia Saudita. E, se da un lato il presidente Hassan Rohani ha affermato che è giusto che le autorità vengano messe in discussione, dall’altro l’ayatollah Ali Khamenei, Guida suprema iraniana, ha attribuito la responsabilità delle proteste ai Paesi “nemici” dell’Iran.

L’Arabia Saudita da anni si contende il primato nella regione con l’Iran attraverso interventi e azioni diplomatiche in diversi scenari di conflitto, dallo Yemen alla Siria fino alla recente crisi che ha coinvolto il Qatar. Sebbene non ci siano stati commenti da parte del governo saudita, è comprensibile che le tensioni in Iran siano state accolte con un certo favore dall’opinione pubblica del Paese. Il giornale saudita Al-Riyadh ha definito le proteste una «rivoluzione per la libertà», mentre molti commentatori hanno espresso chiaramente la speranza che i tumulti possano indebolire il regime iraniano.

Ma non sono solo i sauditi ad esprimere soddisfazione nel vedere Teheran in difficoltà. In un editoriale di un giornale in lingua inglese del Bahrain ci si chiede addirittura se queste proteste possano portare a un crollo del regime degli ayatollah esattamente come accadde per la monarchia dello Shah nel 1979. Dal Kuwait invece si parla di «intifada iraniania», mentre Gulf News considera le rivolte, a dispetto delle differenze evidenti, come una «nuova primavera araba». Su Khaleej Times viene ripreso un articolo di The Christian Science Monitor che sottolinea come il popolo iraniano con le proteste chieda “cibo” mentre il governo è troppo impegnato a spendere soldi per la guerra.

Il solo Paese dell’area che fino ad ora non ha preso posizione, né a favore né contro le proteste, è il Qatar, storico rivale dell’Iran a causa di contrasti sui diritti di sfruttamento delle rispettive acque territoriali, ricche di giacimenti di idrocarburi. Più recentemente, però, Doha ha avviato un processo di riavvicinamento all’Iran, processo che ha avuto un’ulteriore evoluzione con l’isolamento diplomatico subito da parte di altri Paesi arabi capeggiati dall’Arabia Saudita. Il piccolo Paese del Golfo si ritrova così tra l’incudine e il martello, e se da una parte non può inimicarsi l’unico vicino con cui non è in rotta di collisione, d’altra esita a passare completamente dalla parte iraniana per paura di perdere per sempre l’amicizia di Paesi che in quanto arabi e sunniti restano comunque più affini di Teheran.

La principale preoccupazione da parte dei Paesi arabi, soprattutto dell’Arabia Saudita, non è tuttavia legata alla tenuta delle rispettive alleanze internazionali, ma alle ragioni di natura economica che hanno portato alle proteste in Iran.

Il crollo dei prezzi del petrolio e degli altri idrocarburi ha causato una forte diminuzione delle entrate sia per l’Iran, sia per i Paesi arabi vicini, tutti grandi esportatori di queste materie prime. Ciascuno stato dell’area ha cercato quindi la propria strada per compensare i mancati introiti provenienti dalla vendita del petrolio. Nel caso dell’Iran la strada passa principalmente per un potenziamento dell’industria grazie, soprattutto, all’accordo sul nucleare civile con gli Stati Uniti e l’Europa di due anni fa. Ora che l’accordo è a rischio, Rohani fatica a mantenere le promesse di una forte ripresa economica grazie alle quali è riuscito a vincere le ultime elezioni. Oltre alle difficoltà economiche, soprattutto per i giovani, a far esplodere le proteste ha contribuito anche l’aumento generalizzato dei prezzi, in particolare quello della benzina. Si tratta di un effetto solo in apparenza paradossale rispetto al calo dei prezzi di mercato a livello globale, visto che molti Paesi produttori di idrocarburi, tra cui Iran e Paesi arabi del Golfo, garantiscono prezzi interni su prodotti quali la benzina molto al di sotto del valore di mercato come misura di “welfare” a beneficio dei propri cittadini.

Se Teheran piange Riyadh non ride affatto, e il governo saudita teme che il malcontento generato dalla diminuzione degli introiti derivati dal petrolio possa sfociare in proteste non troppo diverse da quelle che hanno sconvolto l’Iran. L’Arabia Saudita, come altri Paesi arabi del Golfo, ha approvato un piano per una riconversione dell’economia dalla dipendenza dagli idrocarburi per il 2030, che però potrebbe rivelarsi una data troppo distante nel tempo. Il prezzo bassissimo di petrolio e derivati costituisce un vantaggio a cui molti cittadini della penisola arabica non intendono rinunciare. I piani di riconversione d’altra parte prevedono una diminuzione della dipendenza non solo a livello di esportazioni ma anche per quanto riguarda l’uso interno, attraverso un riallineamento del prezzo praticato rispetto a quello di mercato. Ironia della sorte, il calo del prezzo di mercato globale degli idrocarburi porta a minor entrate nelle casse statali necessarie per sostenere il piano di riconversione dell’economia. A partire da quest’anno Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno introdotto l’IVA al 5%. Una percentuale che in Europa può sembrare risibile, ma che lì rappresenta un esperimento molto rischioso, soprattutto su beni quali il carburante, che per decenni è stato considerato dalla popolazione locale come un bene illimitato e praticamente regalato dallo Stato.

Le proteste iraniane potrebbero quindi rappresentare solo l’inizio di una nuova stagione d’instabilità in un’area già tanto in bilico. In particolar modo sarà interessante vedere come si muoverà l’Arabia Saudita, storica rivale di Teheran. Sono due gli scenari che i sauditi possono mettere in atto: il primo consiste nel riconoscere l’esistenza di molti punti in comune con l’Iran, soprattutto in merito alla gestione dell’economia come elemento di controllo sociale. E poiché le cause d’instabilità sono potenzialmente le stesse, l’Arabia Saudita potrebbe valutare se non un riavvicinamento con l’Iran almeno una tregua utile a non finire entrambi travolti dall’ondata di proteste. Buoni propositi che potrebbero venire certificati da una risoluzione bilaterale della crisi qatariota e di altri conflitti per procura che vedono coinvolte le due potenze.

D’altra parte, proprio i conflitti che vedono impegnati i sauditi contro l’Iran potrebbero far sì che l’Arabia Saudita decida di approfittarne per indebolire il rivale sostenendo apertamente la rivolta e smettendo di considerare il conflitto con l’Iran come indiretto. L’Arabia Saudita potrebbe pensare di colpire direttamente l’Iran come quest’ultimo sta facendo ai danni dei sauditi per mezzo degli Houthi. La conseguenza di questo rischiosissimo scenario potrebbe essere una guerra diretta tra Arabia Saudita e Iran; un conflitto, quello tra le due principali potenze dell’area, la cui escalation potrebbe arrivare a sconvolgere l’intera società internazionale.

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