Il rapporto tra Cina e Giappone è particolarmente complesso, soggetto ad un’altalenante intensità che ha ripetutamente rischiato di compromettere i risultati faticosamente raggiunti. Tale complessità ha radici storiche molto profonde, che nel tempo hanno prodotto diversi ribaltamenti nel rapporto di forze: da una Cina egemone che richiedeva il tributo del piccolo regno vicino, al Giappone imperialista che vedeva il disastrato impero cinese come soggetto ideale per sfogare le proprie ambizioni. La prima guerra sino-giapponese (1894-95) rappresentò un vero e proprio terremoto culturale e geopolitico, con la vittoria nipponica che diede una delle spallate definitive alla decadente dinastia Qing. Il Giappone ottenne il controllo della penisola coreana, ma non riuscì a conquistare il suo principale obiettivo, ossia la Manciuria. La competizione per la ricca regione nord-orientale convinse il Giappone a lanciare un’offensiva e, nel settembre 1931, l’esercito imperiale invase e occupò la Manciuria. Seguirono diverse schermaglie tra le forze giapponesi e quelle cinesi, che però non si concretizzarono in un vero conflitto su larga scala sino al famigerato incidente del Ponte di Marco Polo nel luglio 1937.

A prescindere dalla reale natura dell’incidente, molto probabilmente inscenato dalle forze occupanti, questo fornì l’input necessario per lo scoppio della seconda guerra sino-giapponese. Dopo aver consolidato la propria posizione in Manciuria, con la creazione dello Stato fantoccio del Manchukuo nel 1932, Tokyo poteva ora concentrarsi sulle principali città e porti cinesi, portando avanti una campagna di conquista tanto cruenta quanto inesorabile. Nel dicembre del 1937 l’esercito giapponese, dopo aver conquistato Shanghai, proseguì la sua avanzata verso Nanchino, l’allora capitale della Repubblica di Cina. Le forze cinesi, in ritirata e fortemente indebolite dopo la sconfitta patita a Shanghai, decisero di abbandonare la capitale, lasciando così la città in mano alle forze occupanti. Dopo una strenua resistenza civile, guidata principalmente da imprenditori e missionari stranieri attraverso la creazione di una zona demilitarizzata per tutelare donne e bambini, il 13 dicembre la città cadde in mano giapponese. Quello che accadde nelle settimane successive è passato alla storia come uno dei più brutali eccidi della storia recente, il Massacro di Nanchino.

I soldati giapponesi iniziarono la propria rappresaglia uccidendo tutte le persone che fossero sospettate di essere soldati o di aver legami con le forze di Chiang Kai-shek, passando poi a tutti i civili che si trovassero al di fuori della zona neutrale. Gli uomini vennero uccisi e migliaia di donne furono vittima di violenza sessuale, per poi essere trasformate nelle cosiddette confort women, schiave sessuali al soldo dei giapponesi. Nel gennaio del 1938, gli ufficiali giapponesi ordinarono l’abolizione della zona demilitarizzata poiché la città, o ciò che ne rimaneva, poteva considerarsi sottomessa. Quando le persone tornarono alle loro abitazioni, trovarono ad attenderle i soldati imperiali per un’ultima razione di violenza gratuita. La situazione raggiunse un equilibrio solo il mese successivo, quando i giapponesi decisero di instaurare un governo locale e concentrarsi su altri obiettivi.

L’efferatezza e la violenza perpetrata dal Giappone rendono pressoché impossibile un conteggio delle vittime, ma le stime ufficiali cinesi oscillano perfino su 300.000 morti, con una cospicua forbice a seconda della fonte presa in considerazione. Infatti, ancora oggi, il resoconto e il retaggio di una delle pagine più nere della Seconda guerra mondiale è fonte di frizione tra Pechino e Tokyo. Soprattutto da parte cinese, l’accusa è quella di minimizzare la gravità dell’accaduto attraverso diverse azioni di revisionismo storico: testi scolastici che ridimensionano notevolmente la spinta imperialista, e le conseguenti atrocità, e la rilevanza politica dello Yasukuni Shrine, un santuario shintoista dove è possibile commemorare e rendere omaggio ad alcuni dei più efferati criminali di guerra che ha visto negli anni la visita di numerosi premier giapponesi.

Nel 2014 la Repubblica Popolare ha istituito una giornata di commemorazione nazionale, alla cui cerimonia inaugurale ha partecipato anche il presidente Xi Jinping, e la memoria del massacro del 1938 viene rinnovata dal Partito comunista cinese ogni 13 dicembre. Secondo la leadership di Pechino, imparare dalla storia è fondamentale per far sì che quanto accaduto a Nanchino non si ripeta mai più. Questo approccio rappresenta il desiderio cinese di cooperare pacificamente con tutti i popoli, in modo da costruire un mondo basato sulla pace, la sicurezza reciproca, la prosperità condivisa, la comprensione e la tolleranza.

Un’apertura rivolta anche verso i giapponesi, nonostante siano i carnefici e, secondo la Cina, abbiano fatto ben poco per redimersi, soprattutto durante i due mandati presidenziali di Shinzo Abe (2006-07 e 2012-20), che non è stato solo espressione di un sentimento politico anticinese, ma anche il perfetto rappresentante del complesso retaggio storico che i due Paesi condividono. Il nonno materno di Abe era Nobosuke Kishi, protagonista di un brutale pugno di ferro in Manciuria e accusato di crimini contro l’umanità. Queste accuse caddero solamente perché gli Stati Uniti videro in lui un prezioso alleato contro l’espansione del comunismo in Asia, al punto da diventare primo ministro (1957-60). Le ripetute visite di Abe al Yasukuni Shrine e la piena adesione riguardo il revisionismo storico sull’occupazione giapponese, complicarono ulteriormente il già delicato rapporto bilaterale.

L’elezione a primo ministro del più moderato Fumio Kishida potrebbe rappresentare un primo passo in avanti verso una normalizzazione dei rapporti, nonostante alcune sue dichiarazioni sulla necessità di aumentare la spesa per la difesa e di un maggiore protagonismo militare giapponese. Inoltre, una sempre più consistente porzione della società civile, in entrambi i Paesi, pensa sia fondamentale trovare un equilibrio e che i due governi dovrebbero lavorare più duramente per risolvere le loro dispute. La pace nella regione e il consistente volume degli scambi commerciali, soprattutto in questo momento storico, sono due interessi condivisi che non possono minimamente essere messi in discussione. In questo senso, è quantomeno auspicabile ricercare un nuovo terreno comune, che riconosca e tenga conto di quanto accaduto nel passato ma sappia anche, nel rispetto delle vittime, andare avanti e pensare a un futuro condiviso.

Immagine: L’interno del Nanjing massacre memorial hall, Nanchino, Jiangsu, Cina (20 agosto 2020). Crediti: ThewayIsee / Shutterstock.com

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#Shinzo Abe#Xi Jinping#Seconda guerra mondiale#Giappone#Cine