13 settembre 2023

Libia, il caos a Tripoli e l’impatto sul percorso elettorale

 

Nell’ultimo anno ci siamo illusi che la Libia potesse incamminarsi su una strada diversa rispetto a quella percorsa dalla morte di Gheddafi. Da quel lontano 2011 sono trascorsi anni difficili nell’ex Jamahiriya che hanno visto scontri tra milizie, guerre fratricide tra l’Est e l’Ovest e periodici disordini interni, spesso fomentati da Paesi stranieri. Di recente, però, alcuni segnali hanno fatto sperare nell’inizio di una nuova era per la Libia e i libici. Khalifa Haftar ‒ l’uomo forte dell’Est ‒ e il primo ministro Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh a capo del Governo di unità nazionale che rappresenta l’Ovest del Paese, sembrano aver messo da parte l’ascia di guerra per collaborare in un processo di normalizzazione delle reciproche relazioni. Nel luglio 2022, dopo la fine degli ultimi scontri nella capitale, con la mediazione degli Emirati Arabi Uniti, le due parti avevano raggiunto un tacito accordo che ha portato alla nomina di Farhat Bengdara (uomo gradito ad Haftar) come direttore della National Oil Corporation (NOC). Da allora si è instaurato un fragile equilibrio tra Cirenaica e Tripolitania che prevede una più equa ripartizione dei proventi del petrolio, utile anche per un maggiore dialogo tra le due parti.

Nel frattempo, seppure tra mille difficoltà, sono continuati i dialoghi del cosiddetto Comitato 6+6, costituito da sei esponenti dell’Alto consiglio di Stato (HCS, High Council of State) e altri sei della Camera dei rappresentanti di Tobruk (HoR, House of Representatives) per discutere sulle leggi elettorali necessarie per le elezioni che si dovrebbero svolgere entro il 2024. Un percorso difficile che deve tenere necessariamente conto di alcune criticità: l’assegnazione di ministeri chiave in un nuovo Governo di riconciliazione nazionale, il comando delle forze armate e la direzione di importanti istituzioni statali, come la Banca centrale. Tuttavia, con un po’ di ottimismo, la strada sembrava quella giusta.

Purtroppo, lo scorso agosto la comunità internazionale si è “risvegliata da questo sogno” e la Libia, per lo meno per ora, sembra tornata a essere un Paese in preda al caos e all’ingovernabilità con inevitabili conseguenze sul piano interno, internazionale e soprattutto per l’Italia che tanto si è spesa per una soluzione negoziale, dialogando costantemente con Haftar e Dbeibeh. 

Sul piano interno, tutto ha avuto inizio il 15 agosto quando sono iniziati violenti combattimenti tra due delle più importanti milizie della capitale a causa dell’arresto del colonnello Mahmoud Hamza, comandante della Brigata 444, da parte delle forze di deterrenza Rada. In particolare, la Brigata 444 dipende parzialmente dal ministero della Difesa, mentre la Rada si presenta come un organismo di sicurezza indipendente che controlla, soprattutto, l’aeroporto di Mitiga a Tripoli. Il bilancio è di 55 morti e 146 feriti. Al di là della gravità dell’accaduto, va sottolineato che questo episodio testimonia la perdurante ingovernabilità dell’Ovest libico, ancora in preda alle diatribe tra milizie che spesso sfuggono al controllo dell’autorità centrale. In un tale contesto diventa difficile prevedere il futuro del Paese. È probabile che si tratti “semplicemente” di uno scontro tra gruppi rivali, ma la possibilità che dietro questa mossa possa celarsi un tentativo di colpo di Stato o comunque una prova di forza nei confronti di Dbeibeh non è del tutto da escludere. Non sappiamo se questo sarà il preludio per altri scontri, ma è certo che non è un buon segnale per la stabilità della Libia e per il tanto agognato percorso elettorale. Ad aggiungere benzina sul fuoco, non possiamo non menzionare il disastro causato dall’uragano Daniel che ha colpito il Paese e ha messo in ginocchio soprattutto la città di Derna nell’Est libico. Una tragedia che va ad aggravare la già pesante situazione interna. Sarebbero, per ora, 6.000 le persone disperse ‒ ma il numero, si sa, è destinato a salire ‒ e migliaia le strutture distrutte. È evidente che questa tragedia va a sommarsi alle già precarie condizioni interne del Paese come la crisi alimentare, l’assenza di elettricità e così via. Tutto ciò potrebbe riverberarsi anche sulle partenze dei migranti diretti verso l’Italia, ma, soprattutto, potrebbe rendere ancora più lento e difficoltoso un possibile percorso politico.

Non va meglio sul piano “internazionale”. Lo scorso 29 agosto sono scoppiate nuove tensioni a Tripoli a causa di un incontro tra la ministra degli Esteri libica, Najla Mangoush, e l’omologo israeliano Eli Cohen. Un vertice tenutosi a Roma il 23 agosto e che, almeno nelle intenzioni iniziali, doveva rimanere segreto. Giova ricordare che tra Libia e Israele non ci sono mai stati normali rapporti diplomatici. Gheddafi è sempre stato uno dei leader arabi maggiormente contrari alla normalizzazione dei rapporti con Israele e uno dei più importanti sostenitori della causa palestinese. Tuttavia, l’incontro è stato poi reso pubblico. Forse un’incomprensione mediatica o forse un atto diplomatico studiato a tavolino. Del resto in Libia sono diverse le questioni aperte con Israele che fanno gola anche ad altri Paesi dell’area: dal petrolio al gas, passando per i dossier relativi a sicurezza e lotta al terrorismo. Si tratta di temi che interessano sia il governo israeliano sia quello libico, tanto che più volte si è parlato di incontri segreti tra i due leader libici e rappresentanti del governo israeliano. Secondo alcune indiscrezioni ci sarebbero anche altri attori interessati a un maggior dialogo tra i due Paesi. Come dichiarato dall’analista libico Mohamed Eljarh in un’intervista rilasciata per l’agenzia Ansa «l’amministrazione Biden attraverso il direttore della Cia, Burns, il Dipartimento di Stato e, sul campo, attraverso l’ambasciata Usa a Tripoli, ha promesso sostegno politico/diplomatico a Dbeibah in cambio di progressi tangibili sulla normalizzazione con Israele». Anche in questo caso resta ancora tutto da capire, ma sicuramente il caos generato da questo evento non è un punto a favore per la pacificazione del Paese e per la realizzazione del percorso elettorale.

 

Infine, per quanto riguarda l’Italia, dopo il grande lavoro svolto dal governo di Roma per siglare una partnership sia in termini di gestione dei flussi migratori, sia in termini economici con il governo guidato da Dbeibah, quest’ultimo sembrerebbe avere negato, lo scorso agosto, il gradimento all’ambasciatore Nicola Orlando, designato nei mesi precedenti dall’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza Josep Borrell a capo della delegazione europea a Tripoli, preferendo il francese Patrick Simonnet: un duro colpo all’impegno italiano in Libia, ma, soprattutto, un asset all’Eliseo, da sempre vicino ad Haftar. A inizio settembre è però arrivata la notizia del passo indietro da parte del leader del Governo di unità nazionale che avrebbe accolto la nomina di Orlando. Nonostante questo “rompicapo diplomatico” sembri risolto, da esso si evince la perdurante competizione della Francia nei confronti dell’Italia, non solo in Libia ma nell’interno Nord Africa. Questo potrebbe non giovare alla stabilizzazione del Paese e al puntuale svolgimento delle elezioni, un percorso che dovrebbe vedere tutti gli attori esterni uniti nel sostenere la Libia.

È evidente che in questo momento nel Paese, e soprattutto nell’Ovest, è necessario ripristinare condizioni politiche e di sicurezza quanto più possibile stabili, perché la stabilità è precondizione essenziale per la realizzazione di un concreto e partecipato percorso elettorale.

 

Immagine: Capitale della Libia, vista sullo skyline del lungomare, Tripoli, Libia (11 febbraio 2021). Crediti: Hussein Eddeb / Shutterstock.com

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