Il fronte è aperto, e tale rimarrà anche perché, in apparenza, Donald Trump non ha alcuna intenzione di chiuderlo. Anzi, forse lo considera, paradossalmente, funzionale in ottica di consenso. Il fronte aperto è quello del rapporto fra il presidente degli Stati Uniti e una parte significativa del mondo dello sport nordamericano, quello politicamente più progressista, che sin dai tempi dell’elezione del tycoon alla Casa Bianca non lesina critiche e attacchi alle posizioni di Trump sul tema dei diritti civili.

Il pretesto dell’ultimo terreno di scontro è il trionfo ottenuto ai Mondiali di calcio femminile dalla Nazionale statunitense, la cui capitana e leader è Megan Rapinoe, calciatrice tanto talentuosa quanto iconica – la chioma rosa sfoggiata sui campi francesi l’ha resa riconoscibile anche a chi non l’aveva mai sentita nominare – e pure donna battagliera nel suo costante impegno sociale. Nel corso del torneo, ha fatto il giro del mondo lo spezzone video di una sua intervista alla testata Eight by Eight nella quale, a precisa domanda se la emozionasse la prospettiva di essere invitata alla Casa Bianca in caso di vittoria, aveva risposto senza mezzi termini, con scurrile asprezza: «I’m not going to the f... White House», aggiungendo peraltro di dubitare che Trump avrebbe mai invitato lei – omosessuale e paladina dei diritti LGBT – e la squadra.

Ora: l’intervista era stata realizzata a gennaio, ma, dato il contesto iridato e gli ottimi risultati delle statunitensi, solo in quel momento il commento era stato reso pubblico raggiungendo Trump, il quale su Twitter non aveva perso l’occasione per replicarle, non senza arroganza, di vincere prima di parlare (con i verbi scritti in maiuscolo, nella sua netiquette di stampo padronale), intimandole di “finire il lavoro”.

Detto, fatto: gli Stati Uniti hanno infine vinto, Rapinoe è stata eletta miglior giocatrice del torneo ed ecco il tema dell’invito tornare in auge, con la conferma della calciatrice – nel faccia a faccia di mercoledì scorso col giornalista Anderson Cooper della CNN – di non avere intenzione (né lei né diverse sue compagne) di accettare una eventuale chiamata che sarebbe solamente un megafono per Trump, ma di essere disposta ad accettare altri inviti, quello del Congresso ad esempio, «per discutere con tante altre persone e avere conversazioni significative che potrebbero davvero influenzare il cambiamento in cui noi crediamo». Già nel 2016, del resto, Rapinoe era stata al centro della polemica per essersi inginocchiata durante l’esecuzione dell’inno americano, lamentando l’esclusività dei messaggi della attuale amministrazione: criticata per questo suo gesto, ha sempre ribattuto che protestare non è mai confortevole, rivendicando le sue battaglie, fossero esse dirette a sostenere la causa omosessuale, antisessista o antirazzista.

Ma Rapinoe non è stata la prima, e non sarà l’ultima, a contestare le politiche di Trump a margine dei campi di gioco. Il kneeling, l’atto di inginocchiarsi in segno di contestazione durante l’inno, era nato quella stessa estate per iniziativa di Colin Kaepernick, allora quarterback dei San Francisco 49ers, per protestare contro le violenze subite dalla comunità afroamericana, ed è stata in seguito condivisa da diversi atleti. La presa di posizione del presidente americano fu, al solito, dura e sprezzante, e nel corso del mandato di Trump sono stati numerosi gli sportivi che hanno attuato forme di protesta, spesso rilanciate dai media: nel football il pugno guantato di Odell Beckham Jr, nel baseball il kneeling di Bruce Maxwell, quindi la saga delle vibranti proteste delle star NBA, dalle parole di Stephen Curry che portarono i Golden State Warriors a declinare l’invito alla Casa Bianca (nel football lo avevano fatto anche i Patriots) sino all’attivismo anti-Trump di LeBron James, che via social si prese dello «stupido» dal presidente. L’elenco è tutt’altro che completo, ma è sufficiente a confermare la tesi. Ed è singolare notare come, mentre in Europa sono principalmente gli esponenti dell’ambiente culturale a criticare i leader conservatori e tradizionalisti, negli Stati Uniti di Trump (sotto il cui mandato peraltro il CIO ha assegnato le Olimpiadi del 2028 a Los Angeles) le voci contrarie si levino forti soprattutto dagli sportivi, avanguardia d’opposizione dotata di eco mediatica internazionale.

Di lì, agli atleti, l’accusa di invadere il campo dello sport con la politica, di strumentalizzarlo insomma, come se questa invasione di campo non fosse in realtà insita nel carattere di fatto sociale dello sport stesso, soprattutto a certi livelli, e come se agli sportivi fosse vietato possedere senso critico e capacità di ragionamento su temi che toccano la qualità della convivenza quotidiana. Trump non abbozza, registra e scende nell’agone e, agli occhi dei suoi sostenitori, ha buon gioco a tacciare gli oppositori di mancanza di rispetto per simboli quali bandiera e inno – e di conseguenza per l’intero Paese – partendo peraltro dalla condizione privilegiata di chi parla da un pulpito opulento quasi quanto il suo (non nel caso di Rapinoe, ma dei miti NBA sicuramente sì). Fosse in Italia, Trump probabilmente abuserebbe del termine radical-chic – che, se non altro, nell’inglese americano non esiste – per definire i vari Curry e James, e nel suo gioco gli atleti riescono a diventare di volta in volta nemici, sabotatori del “make America great again”, contraltari utili a una strategia comunicativa che si basa sulla polarizzazione e funziona soprattutto quando i toni sono aspri e i gesti teatrali.

Tanto, poi, basta un tweet di prammatica per smarcarsi. Nel caso di specie, quello di domenica 7 luglio, dopo la finale: «Congratulations to the U.S. Women’s Soccer Team on winning the World Cup! Great and exciting play. America is proud of you all!», ovvero: «Congratulazioni alla nazionale di calcio femminile per la vittoria del Mondiale! Un calcio grandioso ed emozionante. L’America è orgogliosa di voi!». Un modo per rilanciare la palla nel campo avversario, pronto a sfruttare a proprio vantaggio le altrui mosse.

Immagine: Megan Rapinoe con il trofeo della Coppa del Mondo femminile, New York, Stati Uniti (10 luglio 2019). Crediti: (Photo: Gordon Donovan). tarabird / Shutterstock.com

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