26 maggio 2023

Matrici e natura del mito kissingeriano

 

Henry Kissinger compie 100 anni. E fioccano, come è inevitabile che sia, i commenti. Che celebrano l’intellettuale e lo statista capace come nessun altro di decrittare, spiegare e – quando chiamato a farlo – sfruttare le leggi imperiture delle relazioni internazionali e della politica di potenza. Ovvero – ultimo in ordine di tempo quello dello storico e premio Pulitzer Greg Grandin – mettono sotto accusa il “criminale di guerra”, che nella sua lunga vita pubblica avrebbe giustificato brutali autocrazie e agevolato frequenti violazioni di fondamentali diritti umani. È un’aura mefistofelica o superumana quella che nel tempo si è costruita attorno alla figura di Kissinger: il “Super-K” di una celebre copertina di Newsweek o quello messo finalmente alla sbarra nel “processo” figurato che gli intentò qualche anno fa il famoso giornalista inglese Christopher Hitchens. Un’aura che Kissinger ha abilmente alimentato con i suoi aforismi, il suo cinismo spesso ostentato, la tanta stampa amica e un fronte nemico incline a caricaturarlo e a farne involontariamente il gioco.

Per il nutrito gruppo di ammiratori, la mitologia kissingeriana si è andata strutturando attorno ad alcuni pilastri che negli ultimi anni sembrano essersi ulteriormente consolidati: la sua onniscienza; la sua capacità di offrire un’analisi della politica internazionale al tempo stesso complessa, sobria e scevra da ingenui moralismi o da offuscamenti ideologici; la valenza tanto predittiva quanto, in ultimo, prescrittiva di queste sue analisi. Sarebbe un sapere senza tempo, quello kissingeriano; e un sapere davvero onnicomprensivo. «In un mondo di grigi burocrati, Kissinger è il Machiavelli di cui il mondo ha bisogno», ha scritto qualche giorno fa il nostro ex premier Matteo Renzi, facendoci sapere che Kissinger avrebbe addirittura trovato il tempo per studiare, e molto apprezzare, la sua riforma sulla Buona Scuola. A 100 anni, scrive Renzi, Kissinger è giovane ‒ molto più giovane di tutti noi ‒ «perché capisce il futuro».

 

È lecito, se non indispensabile, diffidare di queste letture superficiali e non poco agiografiche. Chi poi Kissinger un po’ conosce, avendone letto la ricca produzione e studiato gli anni in cui fu consigliere per la Sicurezza nazionale e segretario di Stato, non può che sorridere di fronte a simili apologie. Perché la sua traiettoria intellettuale e la sua esperienza politica tutto sono state fuorché anticonvenzionali, coraggiose o particolarmente sofisticate. Più che dettare o contestare le voghe intellettuali o le ortodossie politiche, nei suoi sette decenni di vita pubblica Kissinger le ha sovente cavalcate, corteggiate e incarnate. Ha teorizzato guerre nucleari limitate o inesistenti gap missilistici a favore dell’Unione Sovietica quando era comune, e molto conveniente, farlo. Diversamente da altri studiosi e commentatori realisti – si pensi solo a George Kennan o Hans Morgenthau – ha sostenuto il fallimentare intervento in Vietnam, contribuendo a prolungarlo ben oltre il dovuto, con costi umani e materiali devastanti per il Paese. Non ha mai messo in discussione un feticcio – quello della credibilità della politica estera statunitense – in nome del quale ha giustificato la sua contrarietà a un’uscita sia dal Vietnam sia, quarant’anni più tardi, dall’Iraq (con un ragionamento poco logico e ancor meno “realista”, sostenne in entrambi i casi che intervenendo gli USA avessero «creato» un interesse, mettendo in gioco la loro credibilità, e che quindi il disimpegno non era più possibile). L’apertura alla Cina del 1972, che tanto ha contribuito alla sua fama di statista abile e spregiudicato, fu in realtà un progetto del presidente Nixon, rispetto al quale Kissinger – allora suo consigliere per la Sicurezza nazionale – rimase a lungo scettico.

E allora come si spiega il mito di Henry Kissinger? Di uno studioso e commentatore di relazioni internazionali molto meno articolato, dotto e, anche, sfrontato nel criticare il potere se confrontato con tanti suoi critici coevi – come appunto Morgenthau o il politologo franco-statunitense Stanley Hoffmann – o, oggi, a teorici delle relazioni internazionali divenuti efficaci commentatori pubblici come Stephen Walt?

Kissinger ha coltivato con abilità questa sua fama: ha fattivamente contribuito alla costruzione del suo mito. La sua prosa opaca e oracolare, il suo marcato accento tedesco, la sua grande ironia hanno contribuito alla leggenda dell’europeo – colto e consapevole – pronto a introdurre un’America tanto ingenua quanto ormai potente negli oscuri arcana della politica americana: nelle loro leggi, regole e pratiche. In questa rappresentazione, Kissinger è l’Europa marcata dalla tragedia della storia che porta a maturità il nuovo e giovane egemone dell’ordine globale, gli Stati Uniti, sottraendolo alle sue fantasticherie adolescenziali. Come disse durante un’audizione al Congresso nel 1976, in un Paese segnato dal fallimento vietnamita, anche per gli USA era finalmente giunto il tempo d’«imparare a condurre la politica estera come le altre nazioni hanno dovuto fare per tanti secoli, senza fughe e senza tregua».

E questo ci aiuta a comprendere meglio le matrici e la natura del mito kissingeriano. Quello offerto da Kissinger è sempre stato un cupo discorso della crisi. Non necessariamente pessimistico, come molti hanno erroneamente sostenuto, che a quella crisi Kissinger pensa sia possibile offrire se non soluzioni quantomeno risposte. Ma un discorso e una retorica che si dispiegano con efficacia nei periodi di difficoltà, lacerazione e rottura del consenso politico e sociale. Non è un caso che il grande momento di popolarità e di massima influenza politica di Kissinger sia stato quello a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, nel mezzo di una crisi a cui contribuivano anche le divisioni rispetto alla guerra in Vietnam. A quell’America – divisa, confusa e polarizzata – Kissinger parve offrire precetti semplici e inequivoci: riduci oneri e costi dell’interventismo globale; delega responsabilità agli alleati; metti da parte utopie democratizzatrici o grandi progetti di modernizzazione e sviluppo; tutela a-moralmente l’interesse nazionale. L’applicazione pratica di questi (banali) presupposti fu tutt’altro che coerente o riuscita. Dal Portogallo postrivoluzionario ai rapporti con gli alleati europei alla mancata comprensione del potenziale della Ostpolitik del cancelliere tedesco Willy Brandt, analisi approssimative se non grossolane e cattive scelte politiche marcarono l’esperienza di Kissinger nelle amministrazioni Nixon e Ford.

Il mito non risentì però di quello, ma della temporaneità, percepita o reale, di una crisi che una volta rientrata espose Kissinger e il suo presunto realismo a critiche feroci, su tutte quella di promuovere una contaminazione europea dei princìpi e dei valori statunitensi. Nella rappresentazione della nuova destra reaganiana, dei neoconservatori democratici e, anche, di non poca sinistra, l’amorale realismo kissingeriano divenne immorale cinismo, e i suoi negoziati con URSS e Cina una nuova, inaccettabile, forma di appeasement. Un commentatore conservatore, Richard Whalen, arrivò a caratterizzarlo come un «outsider non assimilato ... un europeo per eredità e scelta culturale, un cosmopolita per circostanza, un americano per calcolo deliberato» che «evidenzia in modo quasi patetico la natura derivata della sua identità nazionale». Kissinger cercò a lungo di accreditarsi con la nuova destra giunta al potere anche in reazione alle sue politiche. Con una delle tante contorsioni di cui era capace arrivò a prendere le distanze dagli accordi che lui stesso aveva siglato con l’URSS. C’è voluto però un altro, protratto momento di crisi – quello provocato dalle fallimentari guerre statunitensi del XXI secolo e dalla patente contestazione della globalizzazione – per rimetterlo pienamente al centro della scena. Per riaccendere un mito che si era almeno in parte offuscato. Per riportare l’oracolo a Delfi e ricreare la lunga fila di ammiratori che festeggiandone il secolo di vita a lui, nume indiscusso delle relazioni internazionali, tornano oggi a rivolgersi per provare a fare chiarezza nelle fitte nebbie della politica mondiale.

 

Immagine: Al centro, in primo piano, Henry Kissinger, presidente della Commissione bipartisan del presidente Reagan sull’America Centrale, presiede una riunione al Dipartimento di Stato, Washington DC, USA (6 gennaio 1983). Crediti: mark reinstein / Shutterstock.com

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