Nei giorni scorsi il Caucaso è tornato ad essere teatro di guerra, seppur brevemente, quando l’esercito dell’Azerbaigian ha lanciato una cosiddetta “operazione antiterrorismo” contro la regione separatista del Nagorno-Karabakh, la cui popolazione è in larga maggioranza armena. Iniziate il 19 settembre, le ostilità si sono concluse dopo poche ore, quando le autorità di Stepanakert, capitale della repubblica separatista denominata Artsakh, hanno segnalato la disponibilità a negoziare un cessate il fuoco con Baku. La tregua è stata poi effettivamente raggiunta il giorno successivo con la mediazione delle forze di pace della Federazione Russa, stanziate nell’area a seguito dell’accordo trilaterale con Armenia e Azerbaigian raggiunto a conclusione del conflitto del 2020. Il governo di Baku ha giustificato l’intervento con la necessità di mettere in sicurezza l’area dalla presenza di “terroristi”, dopo la morte di alcuni soldati azeri e due civili a causa di mine disseminate lungo la strada che collega Ahmadbayli a Shusha.
Pretestuosa o meno, l’iniziativa dell’Azerbaigian ha di fatto “risolto” in circa 24 ore una questione che andava avanti da oltre 30 anni, ottenendo il disarmo delle milizie separatiste del Nagorno-Karabakh e assicurandosi un controllo sempre maggiore sull’enclave armena, di cui in parte già era entrata in possesso dopo la vittoria nella guerra del 2020. Resta da vedere quanto l’armistizio durerà, ma indubbiamente è difficile immaginare un esito diverso dalla progressiva occupazione della regione da parte azera, considerando come il presidente Ilham Aliyev ha commentato soddisfatto che finalmente «è stata ripristinata la sovranità nazionale».
Le autorità di Erevan non sono potute intervenire a sostegno dei separatisti, dal momento che l’Artsakh si trova all’interno dei confini riconosciuti dell’Azerbaigian. Il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, ha subito definito «inaccettabili» i tentativi di coinvolgere il Paese nell’escalation militare, osservando come l’esercito nazionale non abbia truppe schierate nel Nagorno-Karabakh. In una dichiarazione rilasciata il giorno stesso dell’attacco azero, Pashinyan ha altresì rilevato come l’operazione contro la regione separatista potesse avere l’obiettivo secondario di creare instabilità proprio in Armenia, uno scenario non da escludere viste le proteste di piazza registrate a Erevan già martedì pomeriggio e proseguite nei giorni successivi.
Pashinyan, salito al potere nel 2018 dopo aver capeggiato manifestazioni contro l’allora governo di Serzh Sargsyan, risulta da tempo piuttosto inviso alla Russia, tradizionale “protettore” e alleato più importante per l’Armenia. Il rapporto si è incrinato a tal punto che il premier armeno ha anche paventato l’uscita di Erevan dall’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva, l’alleanza militare a guida russa di cui fanno parte anche gli Stati ex sovietici dell’Asia centrale, con l’eccezione del Turkmenistan.
L’avvicinamento dell’Armenia agli Stati Uniti, sancito proprio la scorsa settimana da esercitazioni congiunte, ha evidentemente dato molto fastidio al Cremlino, il cui peso specifico nella regione è venuto meno progressivamente negli ultimi anni, specialmente dopo l’invasione dell’Ucraina. Qualche analista ha quindi sottolineato il ruolo centrale di Mosca negli eventi di questa settimana, tenendo conto del fatto che il contingente di pace russo schierato nel Nagorno-Karabakh era presumibilmente stato informato in maniera preventiva delle intenzioni dell’Azerbaigian, nonostante le smentite di rito del ministero degli Esteri, tramite la portavoce Maria Zakharova. In qualche modo il Cremlino avrebbe dunque “chiuso un occhio” sull’offensiva di Baku, allo stesso modo in cui ha in precedenza evitato di prendere una posizione netta sulle ripetute azioni azere che hanno bloccato per molti mesi il corridoio di Lačin, unico collegamento tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh. La Russia, in base agli impegni assunti in seno alla CSTO, dovrebbe farsi garante della difesa del territorio di Erevan ma non dell’enclave armena, che di fatto nella visione di Mosca costituisce una “zona grigia”.
L’Azerbaigian, forte di una ormai evidente superiorità militare, ha quindi avuto gioco piuttosto facile nel colpire le basi dei separatisti e dichiarare dopo un solo giorno di combattimenti la «neutralizzazione» degli obiettivi nel Nagorno-Karabakh. Da qui la rapida capitolazione di Stepanakert, mentre migliaia di residenti della regione hanno cercato riparo nelle vicine basi controllate dai peacekeeper russi. Le vittime dei bombardamenti azeri, secondo le autorità armene, sarebbero 32, insieme a circa 200 feriti, mentre per l’Arstakh vi sarebbero stati almeno 200 morti. Il conto dei caduti includerebbe inoltre dei soldati russi, coinvolti nell’esplosione di un convoglio proprio nel Nagorno-Karabakh.
Dopo la guerra del 2020, l’Azerbaigian ha tentato nuovamente la carta dell’offensiva militare, uscendone ulteriormente rafforzato. Baku si sente sicura della propria posizione e non teme evidentemente ripercussioni diplomatiche, tanto da aver sferrato l’attacco proprio il giorno in cui a New York hanno preso il via i lavori dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’Armenia e il governo di Pashinyan, al contrario, confermano la propria difficoltà nel difendere i propri interessi nella regione, a causa anche del mancato sostegno russo. Il premier armeno si è dunque trovato costretto a rivolgersi ai propri partner occidentali, dalla Francia agli Stati Uniti, confrontandosi per via telefonica con il presidente Emmanuel Macron e con il segretario di Stato USA, Antony Blinken. In qualche modo esce sconfitta anche l’Unione Europea (UE), che tramite il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha speso tempo e risorse negli ultimi anni per favorire il dialogo e la stabilità nel Caucaso, coinvolgendo in negoziati a Bruxelles Pashinyan e il leader azero Ilham Aliyev. Proprio in una telefonata con quest’ultimo, Michel avrebbe espresso il proprio «forte disappunto» per l’uso della forza, chiedendo al contempo che l’Azerbaigian fornisca «garanzie credibili» per i diritti e la sicurezza della popolazione armena del Nagorno-Karabakh. Questo punto sarà dirimente nel prossimo futuro, a fronte del rischio, paventato dal ministero degli Esteri di Erevan, di una «pulizia etnica» nella repubblica separatista.