La longa manus del primo ministro indiano Narendra Modi si abbatte sul web, nella nazione che di definisce con orgoglio «la più grande democrazia del mondo». Il premier, a capo del partito nazionalista Bharatiya Janata Party (BJP), è stato al centro di polemiche nei giorni scorsi, dopo la pubblicazione di un documentario in due episodi, edito dall’emittente britannica BBC, titolato The Modi Question e trasmesso nel Regno Unito. Il film analizza il ruolo di Modi nei disordini che, nel febbraio 2002, causarono oltre mille morti nello Stato del Gujarat, nell’India occidentale, in quella che è passata alla storia come la “carneficina del Gujarat”. Allora Narendra Modi era primo ministro dello Stato ed era un astro nascente del BJP. Violenze di stampo etnico-religioso scoppiarono dopo che 60 indù morirono nell’attacco a un treno nella città di Godhra, compiuto da parte di un presunto gruppo di musulmani. Costoro contestavano il viaggio degli indù verso il sito di Ayodhya, nel decennale della distruzione di una moschea costruita – secondo gli induisti – sul luogo di nascita del dio Rama. Dal 1992 quell’episodio alimentava la tensione tra le due comunità. Sta di fatto che la reazione dei militanti induisti fu spietata: migliaia di musulmani innocenti furono presi di mira, uccisi, briciati vivi e costretti alla fuga dalle rappresaglie. Come ricordava già nel 2012 lo storico Antonio Menniti Ippolito su Atlante di Treccani (Stragi e politica. India 2002-2012), la comunità musulmana del Gujarat soffrì distruzioni, espropriazioni e violenze efferate, cui solo l’intervento dell’esercito pose fine. Le stime ufficiali contarono 1.044 morti, tra i quali 790 musulmani, migliaia di feriti e mutilati, e oltre 60 mila fedeli islamici scacciati con la forza dalle loro abitazioni.
Gli avvenimenti suscitarono ben presto sospetti e interrogativi: il rogo del vagone era davvero frutto di un piano dei musulmani, o era stato una provocazione organizzata proprio per far divampare la violenza? Le autorità (e dunque Modi) fecero quanto dovuto per contenere la folla o i disordini furono cinicamente pilotati? Sta di fatto che quella vicenda di furore religioso, abilmente cavalcata da Modi, costituì il definitivo trampolino di lancio per la rapida ascesa politica del leader e del BJP che, in pochi anni si sarebbe imposto come formazione politica alla guida della nazione.
Ora il documentario della BBC mette a fuoco questo processo e ricompone l’intera traiettoria della salita di Modi al vertice del Paese, le controversie che lo hanno circondato, fino all’attuale agenda di governo. Il film pubblica un rapporto inedito e confidenziale del governo del Regno Unito che ritiene Modi «responsabile della violenza» e definisce i disordini «pulizia etnica». Il documentario riporta anche un’intervista con Jack Straw, all’epoca ministro degli Esteri britannico, secondo cui Modi ha svolto «un ruolo attivo nel ritirare la polizia e nell’incoraggiare tacitamente gli estremisti indù».
Sono accuse pensatissime: il governo indiano ne ha ben donde per voler insabbiare lo scomodo video e impedire ai cittadini indiani di prenderne visione. Sguinzagliati i tecnici della censura, le proiezioni nelle università sono state vietate e spezzoni del documentario stesso sono stati rimossi da Twitter e YouTube grazie all’uso di «poteri di emergenza», che si possono invocare per «gravi implicazioni per la sicurezza e minacce alla sovranità e alla pace della nazione», rileva sulla rivista inglese Wired Akash Banerjee, giornalista e opinionista indiano, gestore di The Deshbhakt, canale satirico su YouTube che si occupa di politica e affari internazionali, e che finora – per timore di essere oscurato – non ha parlato né proposto ai lettori il documentario.
Il governo di Modi conferma, allora, il suo approccio teso a censurare il web. Già da un anno l’amministrazione ha inasprito i controlli sui contenuti on-line, consentendo alle autorità di intercettare legalmente i messaggi, di violare la crittografia e di chiudere le reti di telecomunicazione nei momenti di agitazione politica. Nel 2021 il governo ha oscurato l’intera rete Internet più di cento volte. Negli ultimi dieci mesi, l’amministrazione ha chiuso oltre duecento canali YouTube, accusandoli di diffondere disinformazione o di minacciare la sicurezza nazionale.
È allo studio ora una nuova nuove legge, il Digital India Act, destinata ad ampliare il potere di controllo e di censura preventiva dell’esecutivo, in quello che gli attivisti della società civile hanno individuato come un chiaro tentativo di cambiare i connotati all’utilizzo di Internet in India, tramutandolo in uno spazio non più libero ma circoscritto per gli 800 milioni di utenti. Anche perché la comunicazione è considerata dallo stesso premier uno dei gangli vitali per mantenere il potere e il consenso: spiccando tra i moderni leader assoluti in Asia (basti ricordare l’ex presidente Rodrigo Duterte nelle Filippine), Narendra Modi sui social media come Facebook, Instagram e Twitter è seguito, nel complesso, da oltre 207 milioni di persone.
La volontà di controllare uno strumento ritenuto cruciale ha innescato un confronto tra il governo indiano e i colossi tecnologici, iniziato con la disputa sulla riforma del settore agricolo che, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, portò decine di migliaia di contadini a marciare su Delhi. Quella protesta, ben organizzata grazie ai social media, venne abilmente sedata proprio grazie all’intervento dell’esecutivo sulle piattaforme web. Memore di quella vicenda, un anno fa il governo indiano ha varato una serie di provvedimenti per regolamentare le piattaforme tecnologiche, avvisandole che avrebbe ritenuto le società private (come Google, Meta, Twitter) non più solo «intermediari», ma responsabili in solido dei contenuti pubblicati sulle loro piattaforme, con tutte le conseguenze civili e penali. E mentre a giugno 2020 il governo aveva già ordinato il blocco di TikTok insieme ad altre 58 app di proprietà cinese, è probabile che – visto il mercato di milioni di utenti dei social media in India – i giganti tech finiranno per collaborare con l’esecutivo, intaccando la libertà di parola e di espressione e uniformandosi alle direttive del Press Information Bureau (PIB), agenzia ufficiale che tutela il buon nome e l’immagine del primo ministro e del suo governo.
La “buona battaglia” che, anche nel subcontinente indiano, si vuole ed è necessario combattere per fermare l’incitamento all’odio contro le minoranze religiose e la violenza verso le donne – si veda la recente lettera aperta del Constitutional Conduct Group, gruppo di 93 ex funzionari pubblici che invocano interventi concreti per arginare l’aumento degli attacchi contro i cristiani – si sovrappone e diventa, così, la facciata e il pretesto per comprimere sacrosanti spazi di libertà e diritti previsti dalla stessa Costituzione. Un vulnus alla «democrazia più grande del mondo».