È stato il trasferimento più costoso della storia del calcio, quello che all’inizio di agosto ha visto il fuoriclasse Neymar da Silva Santos Jr passare dal Barcellona al Paris Saint-Germain per la cifra record di 222 milioni di euro, necessaria per attivare la clausola di rescissione unilaterale prevista nel contratto del giocatore con il club catalano. Eppure, nonostante il prezzo di cui sopra e i 150 milioni di euro netti – 2,5 al mese – che finiranno nelle tasche del venticinquenne brasiliano in cinque anni, l’affare Neymar è stato trattato dagli analisti, non senza motivi, più come un’operazione politica che come qualcosa che avesse a che fare con lo sport.
Una questione di attori e tempistica, perché il PSG non è un club calcistico qualunque e, per via dell’entità che lo controlla, il contesto non è esattamente dei più semplici. La società parigina, dal 2011, grazie ai buoni uffici dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, è entrata sotto l’egida di Qatar Sports Investments (QSI), ramo sportivo del fondo sovrano qatariota, Qatar Investment Authority, che l’ha portata su livelli economico-finanziari mai visti in precedenza, utilizzandola anche, data la popolarità del calcio in Europa e Asia, come uno degli strumenti di propaganda internazionale più positivi. Una propaganda che, in termini generali, ha vissuto un grave offuscamento nel mese di giugno, allorché Arabia Saudita (l’unica frontiera terrestre del Qatar, che peraltro non si è mai allineato alle politiche anti-iraniane di Ryad), Bahrain, Egitto ed Emirati Arabi Uniti hanno rotto le relazioni diplomatiche con Doha, accusata da questi di finanziare il terrorismo. Un’accusa pesante, alla quale ribattere non è peraltro semplice, a maggior ragione per uno Stato che, negli ultimi quindici anni, ha assunto un ruolo di potenza finanziaria e politica che va ben oltre le ridotte dimensioni dei suoi confini. Opulento e dinamico – basterebbe dare un’occhiata alle strategie delineate nel 2008 nella Qatar National Vision 2030 e agli obiettivi raggiunti da allora – ma comunque relegato, sullo scacchiere globale, in una posizione non di primo piano, e che per questo affida al potere dei circenses la proiezione di un’immagine di grandezza e l’arma di distrazione per narcotizzare la eco delle accuse.
Neymar, in questo senso, ne diventa il testimonial (e lo strumento) più eclatante. L’interpretazione è del giornalista algerino Akram Belkaïd, esperto di geopolitica mediorientale: sull’edizione maghrebina dell’Huffington Post, in riferimento all’affare Neymar, Belkaïd definisce la hybris calcistica dell’emiro del Qatar come causa della frustrazione di chi «sa che non potrà mai comprarsi Exxon, Total o Boeing. Non è una questione di mezzi, ma di possibilità politiche. Così, deve accontentarsi del resto». Il resto in questo caso è lo sport e, dal momento che sport in Europa e Asia significa soprattutto calcio, ecco l’affare Neymar gonfiare i muscoli del fondo sovrano qatariota, l’ostentazione di potenza di chi, non potendo forse aspirare ad altro, è almeno diventato un player di riferimento nell’economia dello sport più amato del vecchio continente.
In meno di un decennio, gli investimenti diretti nel Paris Saint-Germain e nel Manchester City, l’aver portato per primi un marchio commerciale sulle storiche maglie del Barcellona, il ruolo di al-Jazeera – attraverso BeIn Sports – nel mercato dei diritti televisivi dei grandi eventi calcistici e la pressoché granitica difesa della FIFA in merito all’operazione che ha condotto il Mondiale 2022 in Qatar, raccontano in maniera sufficientemente chiara un percorso del quale l’aver portato nel club foraggiato e governato da QSI il giocatore più costoso del mondo è solo l’ultima tappa. Dove il termine “ultima” va inteso in senso meramente cronologico.
L’aspetto sportivo, in tutto questo, finisce per apparire inevitabilmente secondario, ma non per questo va sottovalutato. Al contrario, da qualunque parte lo si veda, nell’affare si può trovare un senso. Al di là delle risibili parole di Neymar in sede di presentazione (quando ha parlato di una «scelta di cuore e non di soldi»), e posto che non ci sarebbe motivo di biasimare il brasiliano per avere scelto un contratto decisamente più lucrativo, va detto però che del PSG Neymar è la stella polare: non ci sono altri compagni a brillare più di lui, non Messi, non Suarez, nemmeno Iniesta. I tifosi, e i bambini soprattutto, tra le maglie personalizzate del PSG scelgono la sua, non quella di un Cavani o un Verratti. Parafrasando i Pink Floyd, andando a giocare in Ligue 1, “O Ney” ha scambiato il ruolo di comparsa in una guerra con quello di protagonista in una battaglia. In fondo, perché no? Allo stesso modo, improponibili Messi e Cristiano Ronaldo, il Paris Saint-Germain si è rinforzato con il più iconico dei profili disponibili sul mercato e, con un colpo ad effetto, si è intestato il trasferimento record dell’estate 2017, al contempo costruendo una squadra sulla carta in grado di dire la sua anche in Champions League, dove mai il club ha raggiunto le semifinali.
Così, quasi per eterogenesi dei fini, un’operazione politica più che calcistica rischia di avere ripercussioni oltremodo benefiche anche sotto il profilo sportivo per quanto riguarda il PSG e le ambizioni di Qatar Sports Investments. A pagarle, pesantemente, è però il movimento calcistico europeo, per due motivi almeno: il primo ha a che vedere con i 222 milioni della clausola del brasiliano, destinati a far degenerare le già discutibili valutazioni degli atleti sul mercato, il secondo concerne la ridicolizzazione delle regole del fair play finanziario, formalmente non violate in un’operazione che, nella sostanza, più di tutte rappresenta il paradigma di ciò che, per dimensioni economiche e finanziarie del caso di specie, dovrebbe essere proibito. Ma chi da Doha ha orchestrato l’operazione sa bene che, in certi affari, la forma è sostanza.