Nella narrazione nostrana sulla Belt and Road Initiative (BRI), l’Italia giocherebbe un ruolo centrale in questa cosiddetta Nuova Via della Seta cinese. Ma è vero? E soprattutto, a due anni dal suo annuncio, cosa si è concretizzato dell’adesione del governo italiano al grande piano cinese e quale significato ricopre attualmente nella strategia geopolitica nazionale, compresi gli equilibri europei sul PNRR?
Nei mesi scorsi abbiamo analizzato il contesto nel quale è stata concepita la BRI, inquadrandone la strategia complessiva, i sostenitori e i detrattori, il ruolo particolare che potrebbe giocarvi il nuovo assetto dell’Afghanistan, così come i suoi progetti simbolo, nel bene e nel male. E certamente carica di significati simbolici è stata anche la firma del memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative da parte dell’Italia, nel marzo del 2019: da un lato nel rafforzare la narrazione che rievocava il legame con la Cina fin dai viaggi di Marco Polo; ma soprattutto per il fatto che si trattava della prima adesione al piano cinese da parte di un Paese del G7. Decisione che non ha mancato di attrarre numerose critiche dagli altri membri del club. In particolare gli Stati Uniti e il Regno Unito, ma anche la stessa Unione Europea (UE), si sono ripetutamente detti preoccupati per questa inaspettata scelta, costringendo Roma a esercizi di equilibrismo diplomatico per cercare di continuare ad attrarre i finanziamenti cinesi ma senza mettere in dubbio l’appartenenza all’alleanza euro-atlantica, sia dal punto di vista politico che militare.
Questo funambolismo è stato reso possibile anche dalla fumosità dell’accordo del 2019. Si trattava, infatti, di un semplice memorandum of understanding, che non ha di fatto valore vincolante, come dimostrato dal caso dell’Australia, che se ne è ritirata senza incorrere in alcuna contestazione o penale. E neppure erano distintamente elencati progetti specifici che ne avrebbero fatto parte. Allora in cosa consisteva questo ruolo strategico italiano?
Tra gli aspetti emersi a quel tempo, oltre al fattore prettamente politico, quello sottolineato con più forza era l’interesse cinese a sviluppare partnership e costruire nuove infrastrutture legate ai porti italiani, come via d’accesso per le proprie merci.
Da un lato è utile ricordare, infatti, come la Belt and Road Initiative sia principalmente una faccenda asiatica: non è un caso che tra i cinque corridoi terrestri previsti nella BRI, solamente uno sarebbe destinato all’Europa. Per di più, anche questo avrebbe già una destinazione diversa dall’Italia, ovvero la Polonia, come punto privilegiato per agevolare l’ingresso verso la Germania e il cuore economico e produttivo dell’UE.
Dall’altro, però, le vie navali contenute nel piano, anche se inferiori di numero, non sarebbero meno importanti. Anzi, si stima che oltre l’80% di tutto il traffico tra Europa e Cina avvenga per via marittima, passando attraverso il Canale di Suez. Proprio questo sarebbe il percorso previsto da una delle due direttrici della cosiddetta Via della Seta marittima del XXI secolo, ma quale dovrebbe esserne il punto di arrivo?
Nel pieno della crisi economica greca, Pechino ne approfittò per assicurarsi il controllo del Pireo, che costituisce quindi l’approdo più semplice per le imprese cinesi. Ma una volta giunte ad Atene, le merci cinesi si ritrovano comunque a dovere affrontare il tappo, politico e logistico, costituito dai molti Paesi balcanici che non sono all’interno dell’area Schengen e hanno infrastrutture obsolete e frammentate, che complicano i trasporti verso l’Europa centrale e del Nord. È proprio questa una delle ragioni dell’interesse della Cina nell’investire sulle linee ferroviarie e stradali verso Belgrado e Budapest, ma nel frattempo Pechino non ha smesso di cercare altre soluzioni più pratiche.
Ecco subentrare l’Italia, con la propria posizione strategica al centro del Mediterraneo e a metà tra i Paesi dell’Europa occidentale e quelli dell’Est. In particolare, l’attenzione della Cina sarebbe concentrata sui porti più vicini a queste aree, ovvero quelli dell’alto Adriatico: Trieste, Venezia e Ravenna. Ma anche, sulla sponda sloveno-croata, Koper/Capodistria e Rijeka/Fiume (d’altra parte, proprio la Croazia rivendica per sé la paternità di Marco Polo...).
È necessario ricordare, a questo proposito, come i porti italiani siano tendenzialmente piccoli e con fondali troppo bassi per le enormi navi portacontainer cinesi. In particolare se confrontati con i grandi scali del Nord Europa. In compenso, richiedono varie giornate di navigazione in meno, rispetto a questi ultimi, hanno in genere molto spazio a disposizione a terra e sono collegati meglio: motivo per cui, quella cinese sui porti italiani, sembra un’offensiva a tutto campo.
Il porto di Genova, per esempio, ha sul tavolo un accordo da firmare con la China Communications Construction Company, peraltro nella lista nera del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Un altro riguarda i porti di Venezia e Chioggia. Mentre l’interesse per il porto di Palermo era stato confermato, già al momento della firma del memorandum del 2019, quando lo stesso presidente Xi Jinping aveva deciso di aggiungere appositamente una tappa anche in Sicilia.
A tale proposito, è proprio di questi giorni l’offerta delle aziende cinesi Cosco Shipping Ports e China Merchants Port Holdings di investire oltre 5 miliardi di euro sul porto di Palermo, per trasformarlo in uno snodo di livello globale per le navi portacontainer. La proposta, però, ha suscitato reazioni molto dure da parte di rappresentanti del governo italiano. In particolare, il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulè, ha parlato della necessità di preservare la strategicità del porto di Palermo dalle mire commerciali o espansionistiche della Cina, dicendo di averne «visto da vicino i disastri e le mancate prospettive» e sottolineando la necessità di mantenere la gestione italiana dello scalo palermitano.
Il fatto che il primo sviluppo apparentemente concreto, dopo due anni in cui gli annunci trionfali non avevano trovato alcun riscontro pratico, sia stato accolto con durezza mostra chiaramente come sia cambiato l’orientamento del Paese verso la strategia cinese.
Anche se chi firmò il memorandum sulla BRI, l’allora vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio, ricopre ancora oggi un incarico rilevante come quello di ministro degli Esteri, la compagine governativa attorno a lui è cambiata completamente in questi due anni, così come gli schieramenti politici che compongono la maggioranza. L’adesione alla BRI, infatti, si era inserita nella politica estera poco convenzionale del primo governo Conte. Già il secondo governo Conte, però, aveva riallineato la propria strategia con quella dei partner europei, scelta che ha coinciso con un rallentamento nell’implementazione dell’accordo (senza necessariamente esserne la causa, dato che in mezzo ci sono stati anche pandemia, crisi economica e altri fattori esterni). L’arrivo al governo di Mario Draghi, infine, ha cambiato sostanzialmente l’approccio nei confronti della Cina, non solo per quanto riguarda la Belt and Road Initiative.
Nei suoi primi mesi l’attuale governo ha infatti impedito l’acquisizione da parte cinese di due diverse aziende italiane specializzate in semiconduttori; ha vietato la vendita di una società italiana che produce semi; ha rinunciato alla costruzione dei moduli per la nuova stazione spaziale cinese; ha avviato accertamenti sul tentativo cinese di prendere il controllo di un’azienda nazionale che fabbrica droni e ha messo paletti alle aziende cinesi nella realizzazione delle infrastrutture per il 5G, in particolare per quanto riguarda Huawei e ZTE.
Le motivazioni sono legate al rischio di trasferire tecnologie che potrebbero avere uso militare o che sono comunque essenziali per la sicurezza nazionale. Ma non si può escludere che tali interventi servano anche a ribadire l’adesione italiana alla strategia occidentale di contenimento tecnologico di Pechino.
Nei mesi precedenti, prima l’ambasciatore americano a Roma, poi il console generale di Milano, erano intervenuti pubblicamente sul tema, sottolineando i timori per l’ingresso cinese nelle infrastrutture strategiche e auspicando che l’Italia valutasse con attenzione «i potenziali rischi per l’economia e la sicurezza nella ricerca di partner per progetti di sviluppo dei suoi porti».
Oltre a questi aspetti strategici, la preoccupazione di Bruxelles pare risieda pure nel timore che le operazioni cinesi in Italia possano dirottare verso le proprie aziende le decine di miliardi di euro di finanziamenti europei del PNRR destinati alla transizione tecnologica italiana.
In questo senso, c’è da notare anche un cambiamento nello stile comunicativo cinese, che si è fatto più attento: con un linguaggio meno aggressivo sul fronte diplomatico e più orientato alla costruzione di una migliore reputazione territoriale, anche tra i cittadini, con tanto di collaborazioni con associazioni ambientaliste e contro la violenza sulle donne. Aggiustamenti che non riguarderebbero solo l’Italia, ma che in generale rientrerebbero in un aggiustamento strategico della Nuova Via della Seta cinese.
Nel corso del terzo simposio cinese sulla BRI, tenutosi a Pechino lo scorso 19 novembre, Xi Jinping ha ammesso la necessità di progredire con nuovi standard sostenibili e centrati sulla popolazione, per rispondere al sempre più complesso contesto internazionale.
Quest’ultimo comprende, tra l’altro, i piani strategici di investimento lanciati negli ultimi mesi dalle varie alleanze occidentali in risposta alla BRI. Progetti come il Build Back Better World americano, che coinvolge anche Giappone, India e Australia, con l’obiettivo di limitare l’influenza cinese nell’Indo-Pacifico. Oppure il Global Gateway, appena lanciato dalla Commissione europea, con tanto di budget di 300 miliardi per investimenti che mirino a «creare collegamenti, non dipendenze», nelle parole di Ursula von der Leyen.
Sono però molti i critici anche di entrambi questi piani, accusati di essere quello che i cinesi chiamano “tigri di carta” e che noi potremmo tradurre come “tanto fumo e niente arrosto”. E in questo senso, potrebbero allora assomigliare molto di più alla Belt and Road Initiative di quanto essi stessi (e i loro detrattori) non credano.
Allo stato attuale, l’adesione italiana alla BRI è formalmente ancora in vigore e, nonostante la pandemia, gli scambi economici con la Cina sono persino aumentati rispetto all’anno precedente. Mentre l’offerta cinese per lo scalo palermitano è, di fatto, ancora valida. Ma tra questo contesto internazionale in evoluzione e le recenti operazioni del governo italiano per frenare l’attivismo di Pechino sul territorio nazionale, appare al momento estremamente improbabile che la Nuova Via della Seta cinese approdi in Italia in modo così rilevante come era stato annunciato.