Nell’osservare l’evacuazione occidentale da Kabul, inermi e basiti, molti osservatori hanno immediatamente dato per scontato che sarebbe stata la Cina a colmare il vuoto di potere lasciato in Afghanistan: integrando i Talebani nella propria sfera geopolitica, a partire dall’inclusione del Paese nella Belt and Road Initiative (BRI). Ma la questione è assai più complessa di così e questo offre anche un’ideale opportunità per mettere alla prova la reale e concreta capacità di attrazione del piano cinese.

Dopo aver introdotto il contesto nel quale è nata la BRI, averne presentato la strategia complessiva e i sostenitori e detrattori, dunque, si tratta ora di capire se davvero l’approccio flessibile scelto da Pechino per il proprio piano strategico, che tanto confonde europei e americani, possa davvero essere un suo punto di forza. A partire dalla capacità di adattarsi al mutare delle situazioni sul campo, come avvenuto drammaticamente nelle scorse settimane in Afghanistan.

Sulla riconquista del potere da parte dei Talebani è stato detto ormai di tutto, ma la verità è che al momento sappiamo ancora poco di come gestiranno il Paese e i rapporti con i vicini e le grandi potenze. Può essere però interessante cercare di capire come questo cambio della guardia possa influire sulla BRI e, viceversa, come l’iniziativa cinese potrebbe influire sulle scelte e sulle politiche dei Talebani.

Come prima cosa si deve riconoscere che mentre i governi occidentali si illudevano (o così dicevano ufficialmente) che il governo afghano da loro insediato avrebbe retto a lungo alla partenza delle truppe americane, la Cina aveva chiarissima la percezione che i Talebani sarebbero stati immediatamente i nuovi padroni dell’Afghanistan. Come tali erano, infatti, stati ricevuti a Pechino già a luglio del 2021, per preparare il terreno in vista di una successiva collaborazione.

Così, mentre poche settimane dopo gli occidentali scappavano da Kabul, l’ambasciata cinese è rimasta aperta, promettendo una proficua collaborazione con il nuovo Emirato islamico dell’Afghanistan. Ma da qui a dare per scontato un immediato trionfo diplomatico cinese, come fosse nel piatto un’annessione di fatto dell’Afghanistan tra i propri satelliti, ce ne passa.

Innanzitutto, se è evidente l’interesse dei Talebani per le opportunità di sviluppo offerte dagli aspetti infrastrutturali (hard) della Belt and Road Iniative, ben diverso è l’approccio verso gli aspetti soft del piano cinese, dall’educazione alla salute, dalla legislazione all’integrazione economica. Ma tanto i vantaggi quanto i possibili ostacoli a una spedita cooperazione tra Cina e Afghanistan sono davvero molti.

In realtà, una prima adesione dell’Afghanistan alla BRI fu firmata già nel 2016. Tuttavia, l’instabilità regionale, le difficoltà logistiche e soprattutto la volontà dell’allora governo afghano di non irritare gli americani, avevano di fatto bloccato ogni collaborazione tra Kabul e la Cina.

Di conseguenza, l’Afghanistan rappresenta un buco nella mappa dei corridoi fisici ed economici ipotizzati dalla Belt and Road Initiative. In particolare il Paese si trova a metà tra il cosiddetto CCWAEC (China-Central Asia-West Asia Economic Corridor, diretto verso Istanbul) e il CPEC (China-Pakistan Economic Corridor, che raggiunge il Pakistan e l’Oceano Indiano).

Il primo, però, passa teoricamente a nord delle catene montuose afghane, partendo dalla Cina nordoccidentale attraverso Kirgizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Iran, per poi raggiungere la Turchia. Perciò la Cina sarebbe interessata a coinvolgere l’Afghanistan nell’altro percorso, il CPEC previsto verso il Pakistan, adeguando i tracciati alle nuove opportunità offerte dal passaggio di potere a Kabul.

Il CPEC è ritenuto un progetto strategico fondamentale per l’approvvigionamento energetico cinese. Da parte sua anche il Pakistan era ed è tuttora interessato agli investimenti cinesi, soprattutto per centrali a carbone. Ma nonostante ciò, negli ultimi anni il progetto è finito quasi in stallo. Dei 60 miliardi di dollari previsti, ne sarebbero stati spesi 12 circa. Altrettanti sarebbero legati a lavori in corso, ma tutto il rimanente appare alquanto in bilico.

Questo sia per questioni pratiche legate alle complesse condizioni e altitudini delle opere previste, sia per questioni di sicurezza (i tracciati attraversano zone che il governo pakistano non controlla pienamente), sia perché anche in questo caso si sarebbero verificate quelle esplosioni di debiti, già denunciate dai critici dell’iniziativa cinese. Il Pakistan ha quindi limitato il budget a disposizione e chiesto sconti, che Pechino avrebbe respinto, mettendo ancora più a rischio la realizzazione del CPEC.

Perché dunque l’Afghanistan dovrebbe unirsi a un progetto così in difficoltà? Innanzitutto, anche a Kabul sono interessati alle infrastrutture promesse dai cinesi, per esempio per sistemare una rete energetica ancora inaffidabile. Ma più in generale, i Talebani hanno bisogno di ricostruire il Paese e mostrare che possono farlo anche senza gli occidentali.

I cinesi, invece, sembrano essere interessati a tre cose: le terre rare che abbonderebbero nel suolo afghano, un accordo con i Talebani perché non supportino i ribelli musulmani uiguri (che minacciano l’integrità territoriale cinese nello Xinjiang) e la possibile strada alternativa a quella pakistana per collegare la Cina con il porto di Gwadar sul Mare Arabico, a due passi dal Golfo Persico.

La città pachistana è stata, infatti, scelta da Pechino come nuovo hub energetico, attraverso il quale far transitare gli idrocarburi provenienti dal Golfo, proseguendo via terra, direttamente verso la Cina occidentale. Una priorità strategica per Pechino, che attualmente è costretta a far viaggiare le proprie navi attorno all’India e poi attraverso stretti come quello di Malacca, che i cinesi temono potrebbero venire bloccati in caso di conflitto.

Obiettivo centrale del CPEC, dunque, sarebbe stato proprio quello di collegare Gwadar con la città cinese di Kashgar, nello Xinjiang, ma il ritardo nei lavori in territorio pakistano non solo sembra difficilmente superabile, ma ha anche frenato gli investimenti dei Paesi del Golfo nel pianificato hub petrolifero.

Un percorso alternativo sarebbe quello che da Gwadar salga direttamente a nord verso Kabul, per poi infilarsi nel cosiddetto corridoio di Wakhan: una stretta valle con passi ad altissima quota e spesso coperta di neve, ma che da molti punti di vista appare più semplice rispetto al piano originale, attraverso le contese cime del Kashmir e di quel Karakorum che comprende quattro dei quattordici picchi al mondo oltre gli 8.000 metri.

Finora questa opzione era stata esclusa perché avrebbe significato passare attraverso un territorio in mano agli americani e con ampie zone ancora insicure, ma un Afghanistan militarmente stabile sotto i Talebani potrebbe finalmente consentire a Pechino di tentare questa strada.

Occorre però ora prendere in considerazione anche gli ostacoli a questa possibile collaborazione. Come prima cosa, l’Afghanistan certo correrebbe gli stessi rischi del Pakistan di non riuscire a rispettare i parametri di restituzione dei prestiti e di copertura degli investimenti cinesi. Anzi probabilmente di più, non avendo grandi risorse o un mercato interno capace di assorbire i probabili debiti in cui incorrerebbe un tale progetto.

Inoltre, non è ancora detto che il nuovo governo di Kabul riesca a garantire la sicurezza dove finora tutti gli altri hanno fallito. Oltre ai Talebani, ci sono infatti molti altri gruppi in lotta per il controllo del territorio, compresi alcuni che non hanno alcuna intenzione di scendere a compromessi con i cinesi.

A questi aspetti infrastrutturali ed economici, si sommano infatti gli ostacoli politici, religiosi, ideologici e simbolici. Gli stessi Talebani, anche se ora le si sono avvicinati per convenienza, non amano affatto la Cina. E ancora meno possono permettersi di mostrarsi troppo disponibili verso Pechino davanti a formazioni potenzialmente ancora più estremiste.

Come può un emirato islamico ignorare, per esempio, le azioni cinesi nei confronti della popolazione musulmana dello stesso Xinjiang, condannate anche dall’Alto commissario ONU per i Diritti Umani**,** tra campi di rieducazione nei quali sarebbero rinchiusi oltre un milione di Uiguri, torture, violenze, sterilizzazioni di massa e tentativi di eradicazione della culturale locale?

Perciò non dovrebbe stupire che, negli stessi giorni in cui la nostra attenzione era comprensibilmente rivolta verso l’attentato all’aeroporto di Kabul dello scorso agosto, un altro attentatore suicida si sia fatto esplodere attorno a una squadra di ingegneri cinesi impegnati proprio in un’opera di collegamento con il porto di Gwadar. Mentre il mese precedente, un altro attentato a un bus di lavoratori della BRI nel Nord del Pakistan (attribuito a Talebani locali) aveva già ucciso nove cinesi.

Questa ostilità nei confronti dei cinesi va tenuta in considerazione non solo per gli ostacoli fisici che potrebbe arrecare alla realizzazione dei lavori, ma anche per la riluttanza ad accettare gli aspetti di “soft power” della Belt and Road Iniatitive. Oltre a tubi, ferrovie e centrali, come già osservato, lo scopo della BRI è anche quello di modellare attorno al sistema cinese i Paesi con i quali si rapporta nel mondo.

Questo include elementi come la “Via della Seta della salute” e la “Via della Seta digitale”, ma anche piani relativi all’educazione e all’emancipazione delle donne, che hanno un ruolo centrale nel modello di sviluppo di Pechino. Così come l’armonizzazione giuridica fondamentale per attrarre investimenti di aziende cinesi. Sarebbero disponibili i Talebani ad allargare la propria giurisprudenza basata sulla sharia per includere leggi cinesi che ne tutelino gli investimenti?

In tal caso, a insistere con il nuovo governo di Kabul perché si apra a queste concessioni potrebbe non dovere essere neppure la Cina stessa, ma altri soggetti musulmani interessati al successo del CPEC e del corridoio verso Gwadar, come il Pakistan e alcuni Stati del Golfo già vicini ai Talebani, come il Qatar.

A tutti questi aspetti, va però sommato anche un mistero che in questi giorni riguarda le sorti del mullah Baradar, cofondatore dei Talebani e fresco di nomina a vice primo ministro dell’Emirato islamico dell’Afghanistan: di lui non si hanno notizie da tempo, se non le voci che lo vorrebbero ucciso o gravemente ferito durante una lite per la spartizione delle poltrone, dopo la riconquista di Kabul.

Ma proprio Baradar era l’alta figura dei Talebani che a luglio aveva incontrato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e, anche prima di sparire, la sua fazione sembrava essere quella che aveva ottenuto meno posti di rilievo nel nuovo governo. Una sua uscita di scena potrebbe ulteriormente indebolire l’ala dei Talebani più disponibile a trattare con Pechino.

Può accadere che tutti questi problemi siano infine superati dagli eventi e dai reciproci interessi, ma ciò che è importante capire per tutti è come anche per i cinesi non sarà certo una passeggiata giocare un ruolo di primo piano in questo Paese lacerato. In caso contrario, la Belt and Road Initiative rischierebbe di finire per essere l’ennesima vittima del cimitero degli imperi.

Immagine: Autostrada del Karakorum, Chillas, Gilgit Baltistan, Pakistan settentrionale. Crediti: Mairee992 / Shutterstock.com

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