23 settembre 2016

Olimpiadi. Se non Roma, chi?

Adesso la sfida per l’assegnazione delle Olimpiadi 2024 è a tre, perché tante saranno le città che andranno al voto il 13 settembre 2017 a Lima, in occasione della 130esima sessione del Cio. A meno di ulteriori defezioni, dopo quella di Roma, restano appunto tre città per due continenti: Los Angeles, Parigi e Budapest. Per gli esperti, a questo punto si tratterebbe di una sfida a due, con Parigi favorita, se non altro per questioni geografiche: dopo l'ultima edizione nelle Americhe, a Rio de Janeiro, e la prossima in Asia, a Tokyo, consuetudine vorrebbe – dopo dodici anni – il ritorno dei Giochi in Europa, e la capitale francese appare in vantaggio.

Ma la stessa Parigi sa bene che essere favoriti, come secondo il Coni sarebbe stato per Roma, non significa per forza uscire dal congresso del Cio con la torcia olimpica fra le mani. Già nel 2012, pur favorita, venne beffata da Londra, e non era nemmeno la prima volta in cui le città entrate come sedi in pectore al congresso si sono poi trovate a non ottenere alcun successo. È per questo motivo che, all’indomani del no di Roma, quella che sino ad alcuni mesi fa era considerata la più improbabile delle candidate e che rimane comunque un’outsider, Budapest, comincia a sperare nel colpaccio.

Vedere l’Ungheria ospitare l’Olimpiade è per il primo ministro magiaro Viktor Orbán una sorta di ossessione. Già nel 1998, quando venne eletto per la prima volta, lasciò intendere l’idea. Ma è dopo le elezioni del 2010 che l'idea si è fatta progetto e, nonostante i dubbi delle opposizioni – che adombrano la possibilità di un referendum – e di una parte della popolazione (i sondaggi in merito sono ondivaghi e variano sensibilmente nei loro risultati), Orb á n sente di poter proseguire con una certa efficacia il proprio lavoro di lobby, soprattutto dopo il forfait di Roma. Ma davvero Budapest, e l’Ungheria, possono permettersi di organizzare una manifestazione del genere senza rischi?

In un articolo pubblicato lo scorso 24 giugno sul Financial Times, Tim Harford ha analizzato i parametri capaci di consentire ad una città candidata di ottenere benefici a medio-lungo termine, o comunque di non rimetterci, dalle Olimpiadi. Tre i fattori: prima di tutto la coincidenza con un periodo di recessione «affinché le spese possano rilanciare la domanda», in secondo luogo l’essere una sorta di «gemma nascosta», una città, insomma, adatta al turismo ma non ancora del tutto scoperta in tutte le sue potenzialità attrattive, infine, i suo candidarsi con «un’offerta al ribasso all’indomani di un’Olimpiade disastrosa».

A parte l’ultima – giacché è francamente improbabile immaginare quelli di Tokyo 2020 come Giochi male organizzati e infruttuosi – si tratta di precondizioni che possono tutto sommato adattarsi a Budapest, città in cui il turismo non è esattamente di massa e che potrebbe fungere da volano come accadde per Barcellona nel 1992, e che dal punto di vista economico si situa in un contesto non di recessione, perché il Pil cresce e la disoccupazione cala, ma ancora fragile e considerato poco affidabile dalle agenzie di rating internazionali, che pure ne confermano un miglioramento: ad esempio, Standard & Poor’s, lo scorso 19 settembre, ha migliorato l’indice portandolo a BBB-, un livello oltre il junk in cui si trovava in precedenza.

Ciò che potrebbe avvantaggiare Budapest sono le dimensioni sostanzialmente “ristrette” dei Giochi che proporrebbe: nulla a che vedere con il gigantismo di Pechino (40 miliardi di dollari il costo), né di Londra (circa 27 miliardi) che pure si è ritrovata come lascito un intero quartiere completamente riqualificato, quello di Stratford, e nemmeno, in fondo, con ciò che si preannuncia essere l’Olimpiade di Tokyo. Perché organizzare un’Olimpiade costa parecchio, il rischio di perdite è altissimo – e lì è la vera sfida dei Paesi che hanno il coraggio di portare a termine la candidatura: farla fruttare, creare una legacy significativa – ed è per questo che negli ultimi anni i ritiri di candidature anche appena accennate non sono mancati. Se i delegati scegliessero Budapest potrebbero riaprire la strada a candidature più sostenibili, tentando di cancellare il disastro di Atene, che pure costò 16,7 miliardi di dollari. Ma la collocazione geografica strategica di Budapest, e le dimensioni che la fanno più simile a Barcellona, paiono allontanare lo spettro di quanto accaduto alla capitale greca. Del resto, il passaggio ad Olimpiadi meno opulente fa già parte degli obiettivi del Cio, così come stabilito fra i 40 punti di Agenda 2020, il documento programmatico approvato nel novembre 2015.

La sfida delle città candidate è anche quella di utilizzare al meglio strutture già esistenti, e in questo senso Budapest si sta già portando avanti con i lavori: nell’estate 2017 la città ospiterà i Mondiali di nuoto e completerà nei prossimi mesi il Dagály Aquatics Centre che verrebbe utilizzato anche per i Giochi, così come ha già iniziato (programmando il termine lavori per il 2019) la ristrutturazione dello stadio nazionale che verrebbe utilizzato per il calcio, assieme agli stadi già esistenti di Debrecen, Győr e Miskolc; per non parlare della disponibilità, per gli sport in acque libere, del placido lago Balaton, a meno di due ore dal centro cittadino, senza necessità di dover creare bacini artificiali destinati a restare poi inutilizzati. Certo non siamo a quel 90% di strutture già esistenti che, abbisognando solo di ammodernamenti, renderebbero i Giochi drasticamente meno costosi, ma il programma infrastrutturale governativo sta già evolvendo in senso positivo, indipendentemente dall’ottenimento della sede. Casomai, preoccupano più i costi di altre infrastrutture, come ad esempio il nuovo ponte sul Danubio, automobilistico e ferroviario, promesso in caso di ottenimento della sede.

Tuttavia, allo stato dell’arte proprio il governo di Budapest, principale motore e sponsor di una candidatura in cui crede ciecamente, rischia di essere la maggiore fonte di imbarazzo per il Cio. La costruzione del muro anti-migranti al confine con la Serbia e la Croazia, nell’agosto 2015, e il referendum sulla quota di migranti convocato per il prossimo 2 ottobre, voluti entrambi da Orb á n, fanno a pugni con i principi olimpici e con la filosofia di fondo che dovrebbe permeare i Giochi e la loro realizzazione. Ma, in fondo, lo stesso Cio ha più volte dimostrato – si veda i Giochi invernali di Sochi 2014 – di derogare, senza stare troppo a sottilizzare su ciò che una sottigliezza, in realtà, non è.

 


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