La visita di papa Francesco al Cairo è stata importante da più punti di vista. Si è trattato di un momento significativo in una prospettiva ecumenica, ma nello stesso tempo non è stato minore il significato politico degli incontri con il grande imām Aḥmed al-Ṭayyib, con il presidente al-Sīsī e con Tawadros II, il papa della Chiesa copta e patriarca di Alessandria.

Come è stato sottolineato da Massimo Faggioli sull’Huffington Post del 27 aprile, la visita del papa all’università di Al-Azhar si inserisce nel contesto di un ampio dibattito in corso anche nel mondo intellettuale musulmano sul rapporto tra religione e modernità politica. Si tratta di un punto che era particolarmente caro a Benedetto XVI e non è casuale – ricorda Andrea Mainardi su Formiche.net – che Francesco abbia richiamato indirettamente il ratzingeriano «coraggio di cristianesimo aprirsi all’ampiezza della ragione».

Che la questione fosse spigolosa lo sappiamo bene dopo le dure reazioni egiziane nel 2006 al discorso di Ratisbona, ma sembra che l’impostazione pragmatica di Bergoglio risulti più efficace e meno problematica del piano teorico assunto allora da papa Benedetto. Il significato politico di questo confronto tra islam e cristianesimo è stato messo in rilievo, infatti, sia dal pontefice sia dall’imām di Al-Azhar, che ha ribadito il valore del dialogo e dell’impegno delle fedi contro la violenza – «l’islam non è una religione del terrorismo» – per la pace, l’uguaglianza e la dignità di tutti gli esseri umani indipendentemente «dalla fede o dal colore della pelle». Da parte sua, papa Francesco ha rincarato la dose contro «la barbarie di chi soffia sull’odio e incita alla violenza» e ha affermato solennemente che «la civiltà dell’incontro è l’unica alternativa all’inciviltà dello scontro».

Prettamente bergogliano è stato poi il richiamo alle cause profonde e materiali della spirale guerra-terrorismo: conflitti, commercio di armi, interessi politici e populismi. È da sottolineare anche l’appello all’unità delle religioni «per rimuovere le situazioni di povertà e di sfruttamento, dove gli estremismi più facilmente attecchiscono». Come a dire che l’azione per smascherare i tentativi di politicizzare e distorcere il sacro non può attecchire senza un intervento sull’ordine temporale del sistema-mondo.

Non è certo la prima volta che papa Francesco si pronuncia sulla questione e da questo punto di vista, come conferma anche la presenza del patriarca di Costantinopoli, la visita in Egitto è parte di una strategia politica di pace che trova nell’ecumenismo cristiano e nel confronto interreligioso la chiave di volta per affrontare le storture politiche del tempo presente: il dramma dei migranti, denunciato con i fratelli ortodossi in occasione della visita a Lesbo nell’aprile 2016 , la deriva della “terza guerra mondiale a pezzi”, denunciata a Cuba insieme al patriarca della Chiesa russa dopo quasi mille anni dal grande scisma.

A scandire l’intensa giornata del  28 aprile – prima dell’abbraccio con Tawadros II, con cui ha firmato una dichiarazione congiunta sui rapporti tra le due Chiese – è stato, infine, l’incontro a porte chiuse con il presidente egiziano al-Sīsī e le autorità civili presso l’hotel Al-Masah. Fonti locali (non confermate e non smentite dalla Santa Sede) hanno rivelato che il papa avrebbe fatto riferimento alla drammatica vicenda di Giulio Regeni, il cui assassinio ha aperto gli occhi delle opinioni pubbliche europee sulle condizioni in cui versa la libertà di stampa e di opinione nel regime. Secondo diversi commentatori, il discorso ufficiale del papa sarebbe stato morbido e molto cauto nel richiamare il governo del Cairo al «rispetto incondizionato dei diritti dell’uomo», in qualche modo alimentando la convinzione degli oppositori interni che il regime utilizzerà la visita per scopi propagandistici.

Prima dello sbarco del pontefice in Egitto, il governo ha varato una riforma che ha di fatto annullato l’indipendenza dei principali organi giudiziari. Bergoglio ha parlato del dolore «delle famiglie che piangono i loro figli e figlie», ma le preoccupazioni degli oppositori del regime di al-Sīsī, condannato da Amnesty International per il deterioramento dei diritti umani, appaiono più che fondate.