Era una delle grandi incognite lasciate dal voto di novembre, dalla sua incredibile coda, dall’assalto al Congresso del 6 gennaio e, infine, dal secondo impeachment di Trump. Sarebbe riuscito il Partito repubblicano ad affrancarsi dall’ipoteca posta su di esso da Trump? Come ci si sarebbe liberati dalle scorie altamente tossiche lasciate dal trumpismo, dalla retorica grossolana e non di rado violenta dell’ex presidente, da teorie cospirative diventate quasi egemoni tra l’elettorato repubblicano (dove secondo alcuni sondaggi, ancor oggi una maggioranza ritiene che Obama non sia nato negli USA e la sua sia stata quindi una presidenza illegittima)?

Condizione – l’affrancamento da Trump e dal trumpismo – fondamentale non solo per i repubblicani, ma per la stessa democrazia statunitense, soggetta a tensioni fortissime: vittima di una fatica, se non una vera e propria crisi, di cui Trump è stato in larga misura il portato più che la causa, ma che i suoi quattro anni alla Casa Bianca hanno ulteriormente esasperato e acuito.

A oggi, però, questo affrancamento dei repubblicani da Trump non è avvenuto. A dispetto di quanto accaduto; a dispetto delle denunce della responsabilità diretta dell’ex presidente rispetto ai fatti del 6 gennaio anche da parte di figure centrali del partito, come l’ex vicepresidente Pence o del capogruppo al Senato McConnell; a dispetto del silenziamento di Trump da parte di tutti i principali social. A dispetto di tutto, insomma. Il Partito repubblicano continua a essere più che mai il partito di Donald Trump.

I sondaggi vanno maneggiati con cautela, ovviamente. Alcuni indicherebbero in realtà una parziale (e, stando ai numeri, piuttosto limitata) rottura, con una parte della base pronta finalmente a dichiararsi “repubblicana” prima (e più) che “trumpiana”. Altri, una maggioranza mi sembra, vanno però in una direzione diversa. Una nettissima (85%) maggioranza degli elettori repubblicani chiede che i candidati alle elezioni di midterm del 2022 abbiano posizioni in linea con quelle dell’ex presidente. Trump è ancora popolarissimo nella base e rimane, per largo distacco, il candidato preferito in prospettiva 2024. Stando a diverse rilevazioni, molti elettori repubblicani hanno fatto proprio il mito della vittoria elettorale rubata e ritengono che vi siano state frodi su ampia scala il novembre scorso; una maggioranza (il 53%) continuerebbe addirittura a credere che il vero presidente sia ancora Trump.

Tutto ciò si traduce, e si è tradotto, nella vita e nell’azione quotidiana dei repubblicani. Le critiche a Trump sono rapidamente rientrate e alcune delle figure più importanti del partito, a partire dal leader alla Camera Kevin McCarthy – che inizialmente avevano riconosciuto la grave responsabilità dell’ex presidente per i fatti del 6 gennaio – si sono rapidamente recate a Mar-a-Lago/Canossa, cospargendosi il capo di cenere per ricucire con Trump. Chi, dentro il partito, ha cercato di opporsi è stato denunciato e, su scala locale come nazionale, sollevato dai propri incarichi (il caso più eclatante è ovviamente quello della deputata del Wyoming Liz Cheney, che aveva votato per l’impeachment di Trump e che è stata rimpiazzata nel suo ruolo di leader della Conferenza repubblicana alla Camera, di fatto la terza carica repubblicana alla Camera bassa; ma vicende simili si ritrovano anche a livello statale). Col pretesto di brogli elettorali, smentiti peraltro da tutti i riconteggi e le analisi sul voto di novembre, numerosi Stati repubblicani hanno approvato – o, nel caso del Texas, stanno cercando di approvare – leggi che ostacolano l’accesso al voto, in particolare per la minoranza afroamericana. Ricorrendo al filibustering al Senato, i repubblicani hanno affondato la proposta – bipartisan in origine – di creare una commissione d’inchiesta sui fatti del 6 gennaio (con l’ovvio obiettivo di proteggere l’ex presidente da ciò che questa inchiesta avrebbe potuto rivelare; da parte loro i democratici contavano di poterla sfruttare in prospettiva midterm 2022).

Come si spiega tutto ciò? In che modo e perché quella che appariva una prospettiva plausibile al momento dell’insediamento di Biden non si è in alcun modo realizzata? In sintesi estrema, tre spiegazioni possono essere offerte.

Una prima spiegazione è tutta politica. Come il caso di Liz Cheney mostra bene, opporsi oggi a Trump rischia di costituire il bacio della morte per un repubblicano. La base è con lui e il pericolo, soprattutto per un membro del Congresso, è che Trump usi lo strumento delle primarie per punire il dissenso ed eliminare politicamente chi non si allinea. Aggiungiamo il ciclo elettorale permanente e quindi il peso che la prospettiva del midterm prossimo già esercita. I repubblicani hanno la concreta possibilità di riconquistare almeno una delle due Camere; più la Camera del Senato, a dire il vero, visto che dei 34 (su 100) seggi in palio per il secondo, 20 sono controllati da repubblicani (anche se tra gli altri 14 ve ne sono alcuni – Georgia, Arizona, New Hampshire – dove i dems sono vulnerabili). Con una maggioranza molto tenue alla Camera (219 a 211, con 5 seggi vacanti) e numerosi deputati democratici che hanno già annunciato di non ricandidarsi, sarà molto, molto difficile mantenere la maggioranza per il partito del presidente (tanto per intenderci, nel XX e XXI secolo solo in due occasioni – e occasioni davvero particolari – nel 1934 e nel 2004, il partito del presidente eletto due anni prima non ha subito una sconfitta, non di rado pesantissima, alla Camera; la media dalla Seconda guerra mondiale a oggi è stata di circa 30/35 di seggi persi dal partito del presidente). Al midterm è fondamentale galvanizzare e mobilitare appieno il proprio elettorato, cosa che Trump ha dimostrato di saper fare come nessun altro. Forse con Trump non vi è un futuro per i repubblicani, visto quanto urtica, aliena (gli elettori moderati/suburbani ad esempio) e contromobilita. Ma per il momento senza Trump non vi è nemmeno un presente: opporvisi, come McConnell ha ben compreso, vuol dire spaccare il partito e perdere appunto l’occasione di infliggere un colpo durissimo a Biden e ai democratici nel 2022

La seconda è piuttosto ideologica. La base repubblicana è stata pienamente catturata dal messaggio trumpiano. Perché il suo nazionalismo razziale non è affatto eccentrico rispetto ai codici della destra repubblicana post-anni Settanta, rendendo al massimo esplicito qualcosa che sotto traccia esisteva da tempo. Perché la crisi post-2008 ha fatto saltare tanti dei meccanismi che avevano contenuto gli effetti delle dinamiche d’integrazione globale, rivelando l’intrinseca tensione tra globalizzazione e democrazia e legittimando risposte nazionaliste, anche estreme, come quella di Trump. Perché il radicalismo di Trump è il plastico prodotto di un processo di polarizzazione politica, sociale e culturale che ha segnato la storia statunitense degli ultimi 40/50 anni.

Direttamente legata ai punti precedenti, la terza spiegazione è, diciamo così, piuttosto storica. Molto banalmente, Trump – con tutte le sue radicali eccentricità, il suo lessico scorretto e primitivo, il suo analfabetismo istituzionale – non è figura nata dal nulla. È il prodotto – estremo ma comprensibile – di processi di periodo lungo o quantomeno medio: la polarizzazione, appunto, e la delegittimazione tra due partiti che si percepiscono (e rappresentano) sempre più non come avversari politici, ma come nemici assoluti e pericoli esistenziali per l’idea di America che l’una e l’altra parte ambiscono a incarnare; le guerre culturali e, nel caso dei democratici, forme di “identity politics” che allontanano degli elettori e legittimano risposte come quelle trumpiane); i summenzionati effetti della globalizzazione e come la crisi del 2008 abbia alimentato una richiesta di protezione, che Trump e una certa destra sovranista sono riusciti a intercettare; il degrado e l’imbarbarimento estremo del conflitto politico, alimentato peraltro anche dai nuovi strumenti e forme della comunicazione (fu Trump, tra gli altri, a promuovere e finanziare la spregevole campagna sul certificato di nascita di Obama nel 2010-11; tra le star in ascesa del Partito repubblicano, vi sono aperte qanoniane, come la deputata della Georgia Marjorie Taylor Greene; a proposito di degrado, si guardi questo suo video di quando, non ancora eletta, andava al Congresso per minacciare la Ocasio-Cortez). Trump, lo si è scritto e detto più volte, è un Frankestein uscito da più laboratori: dalla crisi della democrazia statunitense; da quella della globalizzazione; dall’imbarbarimento del discorso pubblico e del confronto politico; dalla polarizzazione; dalla radicalizzazione estrema dei repubblicani e dal loro flirtare sempre più esplicitamente con il nazionalismo razziale e il suprematismo bianco. E le sue politiche – dalla fiscalità all’ambiente, dalla sanità alla deregulation – sono in fondo state in larga misura quelle repubblicane classiche.

Insomma, i repubblicani da Trump non sanno né possono affrancarsi. Per buona pace di chi, soprattutto dopo le sconcertanti settimane successive al voto di novembre, lo preconizzava e auspicava.

Immagine: Donald Trump (28 febbraio 2021). Crediti: Valerio Pucci / Shutterstock.com

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