Non c’è pace per il Perù. Nel Paese andino proseguono la crisi politica e la protesta sociale iniziate lo scorso 7 dicembre 2022. In quella data, l’ex presidente di sinistra, Pedro Castillo, aveva tentato un autogolpe, annunciando lo scioglimento del Congresso. Ma nel giro di poche ore lo scenario si era ribaltato. Il balbettante discorso dell’ex presidente Castillo aveva generato una reazione coordinata del Congresso, del potere giudiziario, delle forze dell’ordine. Il presidente, abbandonato anche dai suoi alleati, veniva arrestato dalla sua stessa scorta – è ancora oggi in carcere – e al suo posto si insediava la sua ex vicepresidente, Dina Boluarte. E a partire dall’insediamento di Boluarte, funzionaria statale di seconda linea senza esperienza politica, grandi proteste stanno attraversando tutto il Paese, soprattutto nelle regioni meridionali a maggioranza indigena, per chiedere le dimissioni della presidente, lo scioglimento del Congresso e le elezioni anticipate.

Fin da subito, la protesta si trasforma in un braccio di ferro tra la piazza e lo Stato. Il governo Boluarte ‒ «siamo in guerra» ha dichiarato il bellicista primo ministro Otárola Peñaranda, riferendosi alla protesta sociale ‒ e una maggioranza congressuale frammentata si sono uniti attorno all’idea di non cedere alla piazza. Costi quel che costi. E al momento il costo è di 60 morti, 48 dei quali sono manifestanti uccisi dalle forze dell’ordine, alcuni con proiettili diretti alla testa. Amnesty International denuncia l’uso sproporzionato della forza da parte degli apparati di sicurezza. «Sembra vi siano due tipi di cittadini, uno che deve essere rispettato, un altro, povero ed indigeno, che non merita di essere visto né ascoltato» afferma Ana Lucía Mosquera Rosado, docente universitaria esperta di discriminazione razziale.

L’innesco della crisi è il 7 dicembre 2022, ultimo giorno di governo di Pedro Castillo. Sindacalista, insegnante, originario del Nord del Paese, eletto con il partito marxista Perú libre nel gennaio 2021. La sua vittoria è stata imprevista. Ha ottenuto il 50,13% al secondo turno in un’elezione estremamente polarizzata contro Keiko Fujimori, candidata del partito Fuerza Popular di estrema destra, che ha raggiunto il 49,87%. Fujimori ha cercato invano di ottenere la nullità delle elezioni, chiedendo l’annullamento di 200 mila schede per presunte irregolarità, accusa dimostratasi infondata. Una volta arrivato a la Casa de Pizarro, Castillo ha tentato di articolare un’alleanza con la sinistra urbana di Lima (diversa dalla sua sinistra, quella delle campagne, del Perù profondo) e con altre forze politiche nel Congresso, nel quale era minoranza. Nei suoi sedici mesi di governo ha cambiato 70 ministri, 5 primi ministri, senza riuscire a mettere in marcia nessuna delle grandi riforme attese, a partire da quella agraria. Il tentativo di golpe è stato «il salto nel vuoto di un presidente che non è riuscito a costruire un governo e si è affidato a un circuito opaco di collaboratori, che ha finito per isolarlo» ha scritto lo storico Pablo Stefanoni.

Castillo si è scontrato quotidianamente con il boicottaggio dell’opposizione – il Congresso ha provato a sfiduciarlo con la vaga accusa di «incapacità morale» ‒ e dei poteri di fatto del Perù, che vedevano nel sindacalista di campagna un usurpatore. Ma ha dovuto affrontare anche un altro grande avversario: sé stesso. Castillo è passato da sindacalista di provincia a presidente di uno Stato con 33 milioni di abitanti senza nessuna tappa intermedia, senza un gruppo dirigente, senza idee chiare per governare il Paese. Il tentativo di golpe, durato appena tre ore, e la violenta reazione coordinata a livello politico, militare e giudiziario mostrano appunto questa articolazione di forze: l’incapacità di Castillo e avversari forti e ben organizzati. Com’è possibile allora che da due mesi e mezzo una parte importante della popolazione rischi la vita per protestare contro il governo Boluarte, che ‒ secondo quanto dicono i sostenitori della presidente ‒ ha salvato il Perù dal golpe? E per giunta, in favore di Castillo, un presidente che non ha rispettato le promesse di campagna elettorale?

La crisi peruviana non inizia il 7 dicembre, ma viene da lontano. È fatta di povertà, disuguaglianza, razzismo. «Questo è un paese che espone la sua diversità solo per i turisti, ma non si riconosce in essa» ha scritto la giornalista Elizabeth Salazar. Tra le tante diversità, la più evidente è quella tra la capitale e il resto del Paese. La capitale, la Lima bianca, benestante, istruita nelle scuole private, che vanta discendenza europea, è il Perù che oggi fa il tifo per Boluarte. «Le faccio i complimenti per come sta guidando questa crisi» ha dichiarato di recente Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la Letteratura, recentemente nominato membro dell’Académie française. Da Lima, i manifestanti anti-Boluarte vengono definiti terrucas, terroristi politici, «un’etichetta che serve a criminalizzare il dissenso politico» ha scritto la giornalista Elizabeth Salazar. Dall’altra parte è il fronte dei manifestanti, composto da sindacati, lavoratori informali, indigeni, contadini, provenienti soprattutto dal Sud. Per loro la protesta è l’unico modo di farsi sentire e vedono l’arresto di Castillo come l’ennesimo sfregio di Lima al resto del Paese. E «in mezzo c’è un paese intristito» dichiara il politologo Alberto Vergara.

Il Perù è una delle economie latinoamericane che è cresciuta di più nel corso degli ultimi trent’anni. Tra il 2003 e il 2013, cresceva del 6% in media. Nel 2022 il PIL pro capite era più del doppio di quello del 1992, anno nel quale venne eletto presidente Alberto Fujimori. Fu lui che approvò la Costituzione tuttora vigente, che plasmò il modello economico che ha permesso quella crescita sostenuta. Un modello basato su uno Stato minimo, ferocemente estrattivista (il Perù vive essenzialmente di esportazione di minerali e idrocarburi), sull’iniziativa privata e il commercio. L’altra faccia del modello è un mercato del lavoro con 9,7 milioni di lavoratori informali, il 74% del totale. E una gigantesca differenza di indici di sviluppo, aspettative di vita tra Lima e le zone a maggioranza indigena nel Sud, tra chi parla spagnolo e chi parla quechua.

Dopo due mesi di proteste, oggi ci si chiede quale sia la via d’uscita all’impasse. Alcuni indicano l’avvio di un processo costituente, per superare la Costituzione fujimorista. «Ma è un paradosso. Per un processo costituzionale servono i partiti, l’articolazione tra Stato e società, come si può fare senza? Il problema peruviano è una democrazia senza democratici. Castillo ha provato un golpe, ma la destra fujimorista ha provato ad annullare regolari elezioni» scrive Vergara. Il sistema politico è debolissimo e screditato, soprattutto dopo lo scandalo Odebrecht, il caso di corruzione legato all’impresa brasiliana che ha coinvolto quasi tutti gli Stati latinoamericani.

L’instabilità è la caratteristica della politica peruviana, Paese che ha cambiato sei presidenti negli ultimi cinque anni, «e sono tutti semisconosciuti, nessuno sapeva chi fossero prima di arrivare al potere» spiega Vergara. Per abbassare la temperatura delle proteste, Vergara, suggerisce le dimissioni di Boluarte, ma spiega che si tratterebbe appena di un palliativo. In ogni caso, il Congresso ha respinto tutte le proposte di elezioni anticipate. E sta valutando un progetto di legge per aumentare le pene detentive per chi protesta.

Anche i tentativi di dialogo della Chiesa cattolica – che in altri Paesi, come l’Ecuador, svolge storicamente una funzione mediatrice nelle crisi nazionali – sono andati a vuoto. Nel breve periodo dunque, non sembrano esserci soluzioni efficaci per un problema che ha radici profonde. La notte è ancora lunga per il Perù.

Immagine: Manifestanti si scontrano con la polizia durante una protesta contro la presidente Dina Boluarte, Lima, Perù (19 gennaio 2023). Crediti: Joseph Moreno M / Shutterstock.com

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