Il modello russo

“Ci sono decenni in cui non accade niente e settimane in cui accadono decenni…”, si ricorda che celebrando la Rivoluzione d’Ottobre abbia proclamato Vladimir Il′ič Lenin, materialista dialettico, convinto che tutto accade nella storia degli uomini e nulla fuori di essa. Ne “La quarta teoria politica”, il suo ultimo saggio politico-filosofico (2018), il russo Aleksandr Dugin, afferma invece che lo spirito delle nazioni è collegato a un ordine universale al di fuori di tempo e spazio. Un po’ l’idea mistico-nazionalista di gran parte dell’estrema destra europea, più o meno sovranista. Ed è insistente e diffusa la voce che Vladimir Putin sia un fervente seguace del pensiero di Dugin, che per questo a Mosca viene chiamato il Rasputin del Cremlino (l’altro però ‒ non meno pericoloso, ma più avveduto ‒ era contrario alla guerra). La sua influenza sarebbe notevole anche tra gli alti gradi militari.

Il presidente della Federazione Russa e i suoi più fidati funzionari avrebbero quindi deciso la guerra all’Ucraina valutando tanto il concreto pericolo d’un progressivo accerchiamento della NATO (diretto o attraverso governi ritenuti complici dell’Occidente, come quello di Volodomir Zelenskij), quanto un presunto destino imperiale della nazione russa e di loro stessi: il dato materiale e quello spirituale. Se non che dopo un sanguinosissimo prologo di 8 anni di scontri armati lungo la frontiera (con 13 mila morti) e l’offensiva scatenata con 150 mila soldati, carri armati e aerei il 23 febbraio scorso, il corpo di spedizione russo segna il passo. Hanno sottovalutato la capacità di resistenza armata, politica e popolare ucraina, così come il sostegno che ad essa potevano fornire i paesi occidentali. E l’uso indiscriminato dei bombardamenti aerei avrebbe oggi un costo politico insostenibile.

C’è che nella storia lo spirito di sacrificio e l’eroismo dei russi hanno permesso loro di avanzare vittoriosamente verso occidente soltanto quando l’Europa era irrimediabilmente divisa. È stato così nella controffensiva 1944-45 fino a Berlino, per piantare la bandiera rossa sulle rovine del Reichstag, e nel 1814 fino a Parigi, dove il Romanov-Holstein Alessandro sfilò per primo con la sua cavalleria sotto l’Arco di Trionfo. In entrambe le circostanze dovettero insistere non poco con gli alleati per convincerli a dar loro la precedenza, in quanto enorme era stato il loro contributo alla guerra e superiore a quello di tutti gli altri il bisogno di testimoniarlo simbolicamente. Poiché tanto lo zar quanto Stalin oltre un secolo dopo erano consapevoli di dover riscattare con il successo militare anche l’immagine periferica e arretrata del loro paese, già “gigante dai piedi d’argilla”.

A spiegarne l’origine sono innanzitutto geografia, demografia e meteorologia: l’immensa vastità del territorio (il paese più grande del pianeta), le conseguenti condizioni d’isolamento della maggior parte della popolazione (salvo periodi eccezionali), il clima estremo (i famosi inverni russi, con cui sono stati costretti a fare i conti tutti gli invasori, non esclusi i mongoli dell’Orda d’Oro pur tanto a lungo vittoriosi). Sono questi i fattori primordiali che al momento di aprirsi alla modernità, hanno permesso ai gruppi dirigenti russi di eluderne gli aspetti in qualche misura capaci di democratizzare la società e il sistema di potere. Lo stesso Pietro il Grande per realizzare le sue riforme occidentalizzanti aveva dovuto decimare i bojardi, i feudatari che in ogni modo le avversavano. Il più arcaico medioevo persisteva in Russia. E nuovi bojardi sono i miliardari succeduti alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Adesso a barcollare sono tutte le retrovie, immediate e remote: produzione industriale e logistica hanno difficoltà a reggere frequenze e distanze nei rifornimenti necessari a un fronte di guerra esteso migliaia di chilometri, dunque difficile da raggiungere. Con carri pesanti e mezzi corazzati che tagliano per i campi ad evitare il rischio di imboscate lungo le strade, affondando però nella neve che l’incipiente disgelo boreale trasforma in pantani di fango. È il prezzo dell’inadeguatezza delle infrastrutture di servizio, dalla manutenzione ai trasporti; della dipendenza dell’industria pesante da quella leggera e di questa dalle tecnologie importate, soprattutto da Germania e Italia. Ora bloccate dalle sanzioni. È il costo collaterale di una crescita affidata a una economia doppia e separata, per continuare a limitare quanto più possibile l’accesso di tutti i cittadini alle istituzioni della Repubblica.

La Russia che sta devastando con la sua armata motocorazzata l’Ucraina ha il decimo Prodotto Interno Lordo del mondo (non di poco minore anche di quello italiano, tanto per averne un’idea); ma è al quarto posto per le spese militari (dopo Stati Uniti, Cina e India, nell’ordine).  Proporzionalmente, l’Unione Sovietica e prima ancora gli zar hanno sempre destinato alle spese militari una quantità di risorse maggiore di quelle dei paesi occidentali. Non è certo un caso unico: l’India ‒ tanto per esemplificare con un altro paese d’immensi squilibri ‒ a dispetto dell’accademica definizione di “democrazia più grande del mondo” (per il suo miliardo e 400 milioni di abitanti) vive problemi non molto dissimili. È nondimeno una specificità russa la quasi incomunicabilità tra l’economia del sistema militare-industriale e quella del mercato civile di consumo. Che impedisce quello scambio di ricadute alla base di innumerevoli e straordinari successi dell’economia degli Stati Uniti.

Un’avventura dimenticata

I decenni passano veloci, i cambiamenti sono numerosi; tuttavia ci sono situazioni che per molti e sostanziali aspetti restano le stesse. Corrispondente accreditato a Mosca per il giornale La Stampa, nel novembre 1977 sto visitando il Turkmenistan, allora una delle Repubbliche dell’Asia sovietica, ai confini con Iran e Afghanistan. Sono insieme a una decina di colleghi europei e americani, alcuni ‒ me compreso ‒ con le rispettive consorti, tutti invitati (a pagamento) del Ministero degli Esteri dell’URSS. In quei tempi era vietato viaggiare per conto proprio in quasi tutta l’Unione Sovietica. In gran parte desertica, poverissima ieri come oggi, quella sperduta regione ha nondimeno un gran fascino. Di qui passavano le carovane di cavalli e cammelli che trasportavano da oriente a occidente spezie e tessuti, riportandovi armi (fin d’allora…) e tabacco. Mangiamo in locande vecchie di 300 anni.

L’imprevisto domina però spesso questi viaggi organizzati approssimativamente, in zone impervie e prive d’infrastrutture efficienti. Del tutto inaspettatamente veniamo dirottati dall’itinerario ufficiale. Un ponte di barche che gli incaricati non riescono a liberare dai lucchetti che l’incatenano perché privi delle chiavi necessarie, mette fine dopo 45 minuti di navigazione all’escursione prevista lungo il Karakum-Kanal, il canale artificiale celebrato come il più lungo del mondo, mille chilometri d’acqua attraverso il deserto. Da quel momento, abbiamo l’impressione di scivolare indietro nel tempo, in un passato da teatro gogoliano. Il pullman che ci ha portati dalla capitale, Ashkabad, è irraggiungibile (i telefoni cellulari non esistevano). Dobbiamo tornare in aereo e l’unico aeroporto nelle vicinanze è quello di Mary, al quale però non possiamo accedere in quanto stranieri e anzi neppure dovremmo sapere della sua esistenza poiché è un impianto militare e noi siamo giornalisti, cioè potenziali spie.

Il funzionario del ministero degli Esteri turkmeno che ci guida, Arkimazov, non sapendo come uscire da questo ginepraio che teme possa finire sulle sue spalle, ci rivolge uno sguardo disperato, proponendoci un patto: lui ci fa entrare all’aeroporto, noi ci impegniamo a restare chiusi nell’aerostazione e della faccenda non scriviamo una riga. Pur di andarcene, accettiamo (non so quanto in buona fede). Stipati come sardine a bordo di tre auto dell’amministrazione portuale del canale, arriviamo alla parte civile dell’aerostazione. È sovraffollata di corpulente babuschke con gli occhi a mandorla e contadini che per far tacere le galline chiuse in grandi gabbie spinte sotto le panche di legno sudicio su cui ci siamo accomodati, le hanno fasciate con i turbanti disciolti dalle loro teste e ogni tanto gli sferrano un gran calcio per zittire le più riottose.

Sullo sfondo della grande sala c’è un bancone da bar, con appese alla parete un paio di mensole con due bottiglie di Kvass, una leggerissima birra di cereale, e due di vodka con etichette illeggibili. Nient’altro. I colleghi americani, i più innervositi tra noi, comunque si fanno quasi tutti sotto. Mia moglie Livia e Marci, la moglie giapponese dell’amico Albert Axelbank, corrispondente dell’Associated Press, a un certo momento hanno bisogno di una toilette. Un inserviente ci spiega che ‒ incredibilmente per noi ‒ nell’aerostazione non c’è. Dobbiamo andar fuori, dove al capo di un breve ma incerto e fangoso percorso, nella semioscurità sopraggiunta nel frattempo troviamo un nauseabondo chiosco con un paio di water-closed.

Accompagnate le signore, mi allontano un po’ a caso, per respirare meno sgradevolmente. Ho però compiuto pochi passi, quando un rombo tanto potente quanto inatteso mi fa sollevare la testa e resto quasi abbagliato da una vampata di rosso incandescente a non più di 200 metri. Come se mi fosse sfrecciato davanti un meteorite. Ma lo spettacolo continua. Marci e Livia mi hanno intanto raggiunto. Guardando meglio, nel buio ormai assoluto della sera, comprendiamo che quelle girandole di fuoco a brevissima distanza una dall’altra non sono una notturna magia orientale, bensì il decollo in successione di un gran numero di aerei a reazione. È la tecnologia umana a dare l‘impressione di aver spento tutte le stelle del firmamento. Ci restano nella testa l’interminabile scia luminosa che salendo nel cielo piega in direzione sud-ovest e un interrogativo: cosa abbiamo visto?

Al rientro nel capannone dell’aerostazione precipitiamo di colpo in una bolgia di discussioni, grida e musi lunghi. Albert ci spiega che appena usciti noi (evidentemente inosservati), la polizia militare ha impedito a chiunque di lasciare la sala. Gli raccontiamo lo spettacolo suoni e luci a cui abbiamo assistito e conviene con noi che dobbiamo dissolvere il mistero. Ma dice che devo essere io a farmi avanti, perché lui come americano solleverebbe più sospetti. Così che prendo da parte Arkimazov e gli chiedo una spiegazione. Lui manca poco che mi svenga tra le braccia. Non faccio fatica a intuire i pensieri che gli girano per la mente, tutti i guai che può portagli questa sfortunata giornata. Tuttavia non si perde d’animo e fedele alla filosofia mercantile della sua terra mi propone un ulteriore accordo: soddisferà la mia curiosità rientrati ad Ashkabad, al momento del mio imbarco per Mosca. Fino ad allora, però, di ciò che ho visto non devo farne parola a nessuno.

La nostra guida mantiene la parola. Dopotutto sa benissimo che quel gran fracasso non è certo passato inosservato, quanto meno alla rete radar dell’intelligence NATO lungo il confine turco. Il carosello volante a cui abbiamo assistito tappandoci le narici, è il primo (e l’ultimo) ponte aereo intercontinentale nella storia dell’Unione Sovietica. Ha impegnato le migliori unità delle sue forze armate, l’intero sistema di comunicazione e controllo, oltre mille tra caccia-bombardieri Mig a geometria variabile, Sukhoi 25, Ilyushin da osservazione e incursione, dozzine di giganteschi Antonov da trasporto. Sono così riusciti a salvare in Ogaden la vittoria dell’alleato etiope Menghistu, in quel momento sul punto di cedere all’offensiva somala di Siad Barre. Uno sforzo inusitato che però, a sette decenni dalla Rivoluzione d’ottobre, con ogni probabilità ha contribuito a far saltare i conti dell’Unione Sovietica segnandone la fine.

L’articolo è stato scritto per il blog di Livio Zanotti (Ildiavolononmuoremai.it)

Immagine: Vladimir Putin (17 gennaio 2019). Crediti: Sasa Dzambic Photography / Shutterstock.com

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