Sembra una barzelletta, del tipo “Lo sai cosa fanno un italiano, un canadese, un inglese e un giapponese….”. Invece è una storia serissima, basata su numeri che riflettono i privilegi dei Paesi ricchi. Come gestiscono questi le vaccinazioni contro la pandemia? Dunque, attualmente le dosi pro capite di vaccini anti-Covid-19 distribuite in Italia sono 13 volte più alte rispetto a quelle pro capite arrivate in Uganda. Ogni canadese ne ha 32 volte di più rispetto a un sudanese. Un britannico ne ha a disposizione 12 volte in più rispetto a un kenyota. Ciascun giapponese può contare su 12 dosi in più rispetto a un etiope. Finora, in media, i membri del G20 (appena riunitosi a Roma) hanno ricevuto 15 volte più dosi rispetto all’Africa subsahariana (escluso il Sudafrica, che fa parte del forum). Da soli, hanno avuto a disposizione il triplo delle dosi pro capite che sono arrivate a tutti gli altri 188 Paesi del mondo messi assieme; negli Stati ad alto reddito oltre il 70% della gente ha ricevuto almeno una dose, in quelli a basso reddito si crolla tra il 3% e il 5%.

Questi numeri sono frutto di un’analisi voluta dall’UNICEF (il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia), condotta da Airfinity e diffusa pochi giorni fa. La circostanza è stata fatta notare per l’ennesima volta ai grandi della Terra anche da papa Francesco, alla vigilia del summit romano. Tanto che il 29 ottobre ‒ in un comunicato della Casa Bianca successivo all’incontro del pontefice col presidente degli USA ‒ si leggeva che il cattolico Joe Biden, tra l’altro, ha anche elogiato l’impegno del papa «per garantire che la pandemia finisca per tutti attraverso la condivisione dei vaccini e un’equa ripresa economica globale». Peccato che i forzieri di quei farmaci non siano in Vaticano, ma, a parte qualche donazione simbolica, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa; idem i produttori.

Cosicché l’UNICEF ha messo i punti sulle i, nei limiti del proprio spazio di manovra diplomatico e politico. «La diseguaglianza nell’accesso ai vaccini non sta solo frenando i Paesi più poveri, sta frenando il mondo intero», ha sbottato la direttrice generale, Henrietta Holsman Fore. Poi: «Mentre i leader si incontrano per definire le priorità della prossima fase della risposta al Covid-19, è fondamentale ricordare che, nella corsa al vaccino, vinciamo insieme o perdiamo insieme… Troppe comunità nel continente africano erano già alle prese con sistemi sanitari in affanno. Non possono affrontare un altro anno di questa crisi globale sopportando così tante morti prevenibili e malattie prolungate». L’UNICEF riconosce che, quando si tratta di promettere, gli Stati più benestanti sono generosissimi: visto che hanno più scorte di quante gliene servono, si sono «impegnati a donare queste dosi ai Paesi a basso e medio reddito attraverso Covax», il programma internazionale per l’accesso equo ai vaccini anti-Covid-19.

Tuttavia, i vaccini donati sono trasferiti «troppo lentamente», si legge nel comunicato dell’UNICEF: «Dei 1,3 miliardi di ulteriori dosi che i Paesi ricchi si sono impegnati a donare, ne sono state fornite a Covax appena 194 milioni». Il comunicato si riferisce ovviamente alle promesse pre-summit romano. Mentre le conclusioni cui è arrivato il G20 sono queste, nelle venti pagine del comunicato finale: non bisogna dimenticare gli «sforzi per garantire un accesso tempestivo, equo e universale a vaccini, terapie e diagnostica sicuri, convenienti, di qualità ed efficaci, con particolare riguardo alle esigenze dei Paesi a basso e medio reddito» e quelli «per contribuire ad avanzare verso gli obiettivi di vaccinare almeno il 40% della popolazione in tutti i Paesi entro la fine del 2021 e il 70% entro la metà del 2022». Con la prospettiva di avviare «iniziative per aumentare la fornitura di vaccini e prodotti medici essenziali nei Paesi in via di sviluppo e rimuovere i relativi vincoli di approvvigionamento e finanziamento». Vedremo.

Resta il fatto che per ora quasi ogni promessa fatta dai Paesi ricchi è stata disattesa, quindi lo scetticismo è lecito. In che senso? Si guardino i risultati concreti. Considerando che gli abitanti dell’Africa subsahariana sono 1,1 miliardi (dato del 2020) e che i vaccini dovrebbero essere inoculati almeno due volte per persona, significa che attualmente i 194 milioni di dosi citati poc’anzi ‒ anche se fossero già stati usati tutti e fossero finiti esclusivamente da quelle parti, tralasciando aree disagiate di altri continenti ‒ sarebbero bastati teoricamente per immunizzare meno di 100 milioni di africani, il 10% scarso. Limitandosi dunque all’Africa centro-meridionale, non si può che concordare con l’UNICEF quando scrive che, in pratica, oggi «meno del 5% della popolazione africana è completamente vaccinata»; quindi il virus può imperversare. Eppure, al di là delle considerazioni solidaristiche e umanitarie, l’esperienza di questi ultimi 20 mesi ci ha insegnato che le mutazioni galoppano dove la malattia non è frenata dalle vaccinazioni, per poi diffondersi altrove.

Che fare? Ai leader del G20 romano è stata rivolta una lettera aperta firmata da 48 ambasciatori e testimonial dell’UNICEf in Africa: sono persone scelte per notorietà, affidabilità, professionalità e credibilità. Cosa chiedono ai potenti? «Di onorare le loro promesse e di distribuire urgentemente le dosi di vaccino entro dicembre» del 2021, insieme ai mezzi necessari. «Ogni giorno l’Africa rimane non protetta, la pressione si accumula sui già fragili sistemi sanitari dove ci può essere una sola ostetrica per centinaia di madri e bambini», si legge nella lettera. «Mentre la pandemia provoca un picco di malnutrizione infantile, le risorse vengono sottratte ai servizi sanitari salvavita e alle vaccinazioni infantili. I bambini già orfani rischiano di perdere i nonni. Il disastro incombe sulle famiglie dell’Africa sub-sahariana, 4 su 5 delle quali si affidano al settore informale per il loro cibo quotidiano. La povertà minaccia il ritorno a scuola dei bambini, la protezione dalla violenza e aumenta il rischio di matrimonio precoce». Non solo. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) stima che in Africa meno di un operatore sanitario su 10 (già rarissimi nel continente) sia stato completamente vaccinato; oltre 128.000 sono stati contagiati dal virus, tanti sono morti. Inoltre solo un contagio su 7 viene tracciato, a causa di test limitati.

Tra i firmatari della lettera aperta, ci sono la cantante beninese Angelique Kidjo, la cantautrice afrobritannica Arlo Parks, il cantante afroamericano Davido, il rugbista zimbabwese Tendai Mtawarira (è una star in Sudafrica), il musicista nigeriano Femi Kuti, la pugile somala Ramla Ali, l’economista nigeriano Tony Elumelu, la politica, diplomatica, ingegnera aeronautica e operatrice umanitaria Winnie Byanyima, ugandese. Tutte persone famosissime in Africa; meno dalle nostre parti; men che meno, si presume, tra la maggior parte dei leader del G20. C’è da augurarsi che l’appello contenuto in quella lettera venga preso in seria considerazione. Prima che sia troppo tardi, per gli africani e non solo.

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Immagine di copertina: Un signore africano anziano riceve il vaccino da un operatore sanitario. Crediti: Yaw Niel / SHutterstock.com

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