Geopolitica. Difficile di questi tempi trovare aggettivo e sostantivo più usati e abusati. In molti casi li si utilizza come sinonimo di relazioni internazionali o di strategia, riferendosi agli “interessi” geopolitici di un dato attore o alla sua visione “geopolitica”. Famosi giornalisti propongono selezioni di testi che permetterebbero una introduzione rapida ed efficace agli impenetrabili arcana della geopolitica. Iniziative editoriali di straordinario successo – si pensi, in Italia, al caso di Limes – evidenziano il fascino e la popolarità che la categoria è in grado di esercitare su un pubblico di lettori interessati alla politica internazionale e alla ricerca degli strumenti e delle conoscenze per meglio comprenderla.

Ma cos’è la geopolitica? Quali sono le sue matrici storiche e i suoi patenti limiti come bussola per orientarci nel comprendere il passato e il presente delle relazioni internazionali? E che problemi derivano dalla sua volgarizzazione: dall’affermarsi di una “geopolitica da tabloid” che ne accentua alcuni difetti, su tutti un determinismo storico in una certa misura intrinseco alla disciplina?

Nella sua accezione classica, la geopolitica rimanda alla relazione tra geografia e politica: a come la prima, con le possibilità che offre e le costrizioni che impone, incida sulle scelte, le strategie e gli obiettivi degli attori dell’ordine internazionale. L’elemento geografico – e, in teoria, la sua cruda e ineludibile realtà – definirebbe identità e processi storici. Lo spazio – e quella “territorialità” che qualifica per molti aspetti l’età contemporanea – sono presentati al contempo come risorsa o fragilità, strumenti al servizio delle ambizioni di potenza di un dato attore o fattori che ne acuiscono la vulnerabilità e l’insicurezza ultime. Tra la Germania che nasce accerchiata e gli USA che a lungo godono di una sorta di “sicurezza gratuita” (free security) – per citare un classico esempio di scuola, presente in tante opere generali – vi sarebbe una profonda differenza di condizione geopolitica. Differenza che a sua volta inciderebbe nel forgiare identità e culture politiche inevitabilmente specifiche e distinte.

La geografia, insomma, offre una cornice che aiuta a decrittare e rendere intelligibile la politica internazionale. A spiegare scelte, decisioni, strategie e vincoli che sottostanno all’azione delle grandi potenze, i soggetti principali – e talora unici – di queste analisi. La geopolitica mira ad essere oggettuale e oggettiva: l’oggetto geografico – dato, conoscibile e in una certa misura finito – permette valutazioni concrete e obiettive sui comportamenti degli attori in gioco, scevre da ideologismi e moralismi. La geopolitica classica è quasi sempre realista e a-valutativa. Ambisce insomma a essere scienza. E nel farlo rivendica non solo funzioni analitiche, ma anche capacità predittive e, quindi, un ruolo prescrittivo: è conoscenza applicata, orientata verso un futuro che le sue leggi imperiture, validate dal processo storico, permettono di anticipare e se necessario influenzare.

La cartografia ne è complemento essenziale. Parte di quel processo di oggettivazione del contesto internazionale di cui si fa carico la geopolitica e ovvio strumento dell’azione geo-grafica di (de)scrivere la Terra. Mappare il mondo serve quindi a individuare e illustrare il nesso tra geografia e politica: la geopolitica non può che accompagnarsi a (e produrre) un immaginario cartografico che tende a farsi vieppiù ricco, articolato e, talora, cromatico al crescere delle sue aspirazioni analitiche, predittive e prescrittive.

Geopolitica e cartografia ambiscono a offrire spiegazioni sistemiche, onnicomprensive e di lungo periodo. Una pretesa, e non di rado una hybris intellettuale, che genera però cortocircuiti macroscopici, soprattutto quando esse – nel tentativo, in sé apprezzabile, di raggiungere un pubblico più ampio – semplificano ulteriormente analisi di loro strutturalmente schematiche ovvero esacerbano quelle che sono delle loro vere e proprie tare d’origine. Tra queste ultime vi è quella, su cui con efficacia si concentrò una certa “geopolitica critica” degli anni Novanta/primi anni Duemila, costituita dalla pretesa neutralità e oggettualità del dato geografico. È in larga parte una geografia fissa, immutabile e facilmente mappabile quella cui la geopolitica, e la sua versione “da tabloid” in particolare, tende ad affidarsi. Una geopolitica fatta di potenze di terra e di mare, gabbie che costringono o spazi che proteggono. Che invoca continuamente la storia e le sue asserite lezioni, dimenticandone però quella primaria: d’imparare cioè a contestualizzare e storicizzare. Se lo facesse scoprirebbe quanto poco neutre e oggettive siano state la geografia e la cartografia. Come le mappe della guerra freddaper citare un esempio tra i più studiati – abbiano costituito al meglio dei precisi costrutti sociali e al peggio degli espliciti strumenti al servizio di una narrazione geopolitica e di un disegno politico sottostante. Dove, nelle mappe consumate sui grandi giornali statunitensi e nei discorsi che le accompagnavano, la Mitteleuropa era “orientalizzata” e il Giappone diventava parte di un grande Occidente.

La frequente a-storicità e le pretese futurologiche della geopolitica si combinano con la sua strutturale inclinazione al riduzionismo. Omesse se non azzerate sono l’opacità e, anche, la contraddittorietà di uno spazio complesso, plurale e frastagliato. Banalizzati o semplicemente negletti sono processi storici complessi e accidentati. Mappe auto-evidenti e letture non di rado monocausali finiscono per imperversare. Si denuncia il presunto oblio di una storia il cui dato fondamentale, nella narrazione geopolitica tradizionale, è quasi sempre la lotta e la competizione di potenza che in uno spazio strutturalmente finito viene letta come un gioco a costante somma zero. Ma a quella storia ci si relaziona in maniera invariabilmente statica e funzionale. Le si chiedono lezioni e moniti – a uso e consumo del presente e del futuro – che essa non può certo offrire; si crede che dentro le costrizioni o le opportunità che la geografia impone od offre, quel che valeva un secolo fa continui a valere oggi.

Decontestualizzazione, a-storicità e riduzionismo ci portano all’ultimo grande limite di tanta geopolitica: l’essenzialismo. L’assunto di fondo, lo si è detto, è che l’identità degli attori del sistema internazionale, a partire ovviamente dalle sue principali potenze, sia primariamente determinata dal dato geografico/geopolitico. Ne consegue una visione a sua volta statica e a-storica – oltre che, nelle prescrizioni, invariabilmente normativa – di cosa sia e debba essere l’interesse nazionale. Che non viene declinato sulla base di visioni politiche e ideali diverse, di ideali e di principi. Ma che riflette – o dovrebbe riflettere – elementi naturali e in una certa misura prepolitici. Legati appunto all’essenza intima e ultima del soggetto portatore di questi interessi. Ed ecco quindi abbondare, nel lessico geopolitico, categorie poco problematizzate (e storicizzate), dalle naturali “sfere d’interesse” alle vocazioni regionali fino agli arditismi semantici degli “infuocati spazi terragni” e delle “condizioni antropologiche” prodotte dall’“indole marittima”.

Intendiamoci, le mappe servono, anche se spesso ci dicono di più ‒ molto di più ‒ di chi le produce che della realtà che esse pretendono di raffigurare e spiegare. Così come serve, a chi studia le relazioni internazionali, lo studio della geografia nelle sue diverse declinazioni, nelle sue pratiche discorsive e nella sua evoluzione disciplinare. Ciò che davvero non serve, e che produce anzi una pedagogia al meglio inutile e al peggio nociva, è quella “geopolitica da tabloid” deterministica, essenzialista e a-storica che oggi pare ahimè imperversare.

Immagine: Mappa colorata a mano della proiezione del mondo di Mercatore, 1860 circa. Crediti: RTimages / Shutterstock.com

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