Se ne è parlato poco, e già questo è indice di quanto discutibili possano essere le scelte editoriali di giornali e televisione, ma si sa che le conferenze internazionali interessano il pubblico e stuzzicano la fantasia degli spettatori molto meno delle mogli e delle fidanzate dei calciatori impegnati negli Europei in Polonia ed Ucraina. Eppure, dal 20 al 22 giugno, si è celebrata a Rio de Janeiro la Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile, ribattezzata “Rio+20” perché tenutasi a 20 anni dallo storico Summit sulla Terra sempre nella megalopoli brasiliana. Per dovere di cronaca ed onestà intellettuale, occorre sottolineare che molti leader politici occidentali non sembrano essersi premurati di mettere adeguatamente in risalto l’importanza dell’evento e dei temi oggetto di discussione, assorbiti com’erano da altre questioni di notevole rilevanza e complessità come il salvataggio dell’Euro o perché impegnati in campagna elettorale. I Paesi industrializzati, che non hanno mostrato particolare sensibilità verso lo sviluppo sostenibile quando viaggiavano a vele spiegate e nell’attuale contesto di crisi economica si accontenterebbero di riavere lo sviluppo senza badare più di tanto alla sua sostenibilità, hanno preferito lasciare il palcoscenico ad altri attori ed il fatto che fra i Capi di Stato o di Governo del vecchio nucleo G-7 solo François Hollande si sia recato a Rio di ritorno dalla tappa messicana del G-20, lancia un messaggio abbastanza chiaro e dai risvolti geopolitici non secondari.
Le aspettative delle Ong e di quella variegata e composita realtà che viene genericamente indicata come “società civile” erano molto ambiziose, come traspare dai numerosi comunicati sparsi per il Web, ma a fare da contraltare c’era una ossimorica  “inconscia consapevolezza” che i risultati concreti sarebbero stati molto contenuti.
Dalla conferenza “Go sustainable, be responsible!”  organizzata dal Comitato Economico e Sociale Europeo il 7 e l’8 febbraio con la partecipazione di rappresentanti della società civile, erano emerse interessanti proposte per il summit di Rio, successivamente raccolte in un “memorandum”: fra le più importanti, l’elaborazione di un piano concreto per lo sviluppo sostenibile e l’eliminazione della povertà, la definizione di una “road map” per la green economy con obiettivi chiari e adeguati meccanismi di controllo, la profusione di sforzi decisi per il perseguimento dei Millennium Development Goals, la limitazione dello sfruttamento delle risorse naturali. Si accoglievano inoltre positivamente alcune iniziative che gli Stati si impegnavano ad approfondire in Brasile, come la possibilità di pensare a nuovi indici per la misurazione del benessere ridimensionando il valore assunto in tal senso dal PIL o ancora  l’idea di un ombudsman per le future generazioni. Greenpeace Italia chiedeva invece, fra le altre cose, decisioni che imponessero una maggiore responsabilità e trasparenza alle imprese, la garanzia di energia pulita e sicura per tutti anche attraverso l’eliminazione di sussidi a favore dei combustibili fossili e del nucleare, la tutela delle foreste e della biodiversità, l’interruzione dell’uso di sostanze chimiche pericolose.
Le speranze sono andate in gran parte disattese e se da un lato i rappresentanti dei governi hanno invitato a riflettere su quanto fatto, evidenziando le difficoltà di un negoziato così ampio e per di più in una situazione economica globale così delicata, dall’altro la delusione delle associazioni e dei movimenti è stata così forte da portare alla richiesta di revisione del Documento finale della Conferenza nel punto in cui si fa riferimento alla “piena partecipazione della società civile”.
Il testo del Documento, pur presentando alcune interessanti novità come la costituzione di un forum politico intergovernativo universale che sostituirà la Commissione per lo Sviluppo Sostenibile o la previsione dei Sustainable Development Goals da affiancare ai Millennium Development Goals, appare oggettivamente piuttosto debole e va poco al di là di una pur apprezzabile dichiarazione d’intenti. Frequentemente “si riconosce” l’importanza di un tema, “si pone l’accento” su talune problematiche, “si esprime preoccupazione” per i rischi che il Pianeta corre, ma alle prese di coscienza seguono quasi solo mere raccomandazioni e non impegni vincolanti.
Anche il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon ha lasciato trasparire una certa amarezza per gli scarsi risultati del vertice, sostenendo che il Documento doveva essere più ambizioso.
Sotto il profilo degli equilibri geopolitici, si sta vivendo una fase di transizione: i Paesi emergenti – su tutti il Brasile “padrone di casa” – si sono sicuramente dimostrati attivi, ma non sembrano ancora pronti a prendere in mano le redini del gioco. E così, mentre i Paesi industrializzati sono in evidente difficoltà nonostante i tentativi dell’Unione Europea di proporsi come normative power anche nello sviluppo sostenibile con idee degne di essere esplorate, le economie emergenti appaiono in un limbo, con la Cina che da una parte ha presentato al Mondo Tianjin Eco-City, la prima città interamente ecologica, e dall’altra è stata ancora una volta definita da Wen Jiabao nell’intervento alla Conferenza “Paese in via di sviluppo”.
Un aspetto positivo del summit di Rio è sicuramente individuabile nell’accresciuto ruolo giocato dagli attori internazionali non statali, che pur essendo rammaricati per i risultati dell’incontro sono comunque stati fra i protagonisti del dibattito. La governance globale, chiamata ad affrontare e risolvere problemi di rilevanza planetaria, non può fondarsi sui vecchi schemi del sistema internazionale ed il contributo di attori come le Ong e le multinazionali, oramai a tutti gli effetti soggetti della società globalizzata, non può in alcun modo essere trascurato.
I passi in avanti da compiere perché lo sviluppo sostenibile diventi una realtà sono ancora molti e forse questo è il momento più difficile perché la questione riesca a porsi al centro dell’agenda internazionale. Il tempo che rimane non è però molto ed è fondamentale, come ricordava l’ambientalista indiana Vandana Shiva, che non si confonda la “green economy”  con la “greed economy”, ossia l’economia dell’avidità.
Altrimenti si corre il rischio che la profezia di Toro Seduto, che diceva che “quando avremo abbattuto l’ultimo albero, avvelenato l’ultimo fiume e catturato l’ultimo pesce, ci renderemo conto che il denaro non si può mangiare”, diventi una triste realtà.